Alla fine della conferenza stampa, Cavallito ha aggiornato i presenti sulle indagini in corso e sull'incriminazione di Cassidy Black, ma si è rifiutato di rivelare come abbia fatto Karch, l'investigatore privato, a scoprire che Freeling si preparava a derubare proprio un giocatore del Cleopatra.
Tutti i tentativi di contattare Karch si sono rivelati inutili. Si è comunque scoperto che, da bambino, Karch si esibiva con il padre, il mago noto anni fa come "Karch il Magnifico!", un'attrazione dei casino dello Strip dagli anni Cinquanta ai Settanta.
Il giovane Karch era stato soprannominato "Jack di Picche" a causa di un gioco di prestigio in cui si esibiva col padre. Nel corso del numero, il padre lo infilava in un sacco per la posta chiuso, che poi riponeva in una cassa sbarrata con un lucchetto, e il giovane Karch spariva lasciando al suo posto una carta da gioco: il Jack di picche. Benché Cavallito abbia dichiarato che Karch è stato scagionato da ogni sospetto per la morte di Freeling, il procuratore distrettuale ha comunque criticato la decisione di Karch e della sicurezza del Cleopatra di agire senza coinvolgere la polizia.
Vincent Grimaldi, capo della sicurezza del Cleopatra, non ha voluto commentare le critiche di Cavallito.
Il portavoce dell'Associazione dei casino si è rifiutato di rispondere alla domanda se Karch riscuoterà o meno la ricompensa dopo la morte del ladro e l'arresto della complice.
Ieri sono emersi altri dettagli sul conto di Freeling. Le autorità hanno detto che il sospetto era stato condannato per furto con scasso già due volte e che aveva trascorso un totale di quattro anni in prigione. Pare che anche Freeling sia cresciuto a Las Vegas e che, come Karch, fosse "figlio d'arte". Il padre di Freeling era infatti Carson Freeling, condannato nel 1963 per aver preso parte a un'audace rapina a mano armata al Casino Royale, ispirata al film Colpo grosso, con Frank Sinatra.
Al tempo dell'arresto del padre, Maxwell Freeling aveva tre anni. Carson Freeling è morto in carcere nel 1981.
Karch studiò la foto che accompagnava l'articolo.
Era un'immagine segnaletica di Cassidy Black scattata il giorno del suo arresto. I lunghi capelli biondi erano in disordine e gli occhi arrossati e gonfi per il pianto. Karch ricordò che la donna si era rifiutata di dire una sola parola agli sbirri della polizia metropolitana, anche dopo dodici ore d'interrogatorio. Aveva tenuto duro, e per questo era da ammirare.
Durante l'indagine sul caso Freeling, Karch non l'aveva mai incontrata di persona. Gli era dunque impossibile capire se la donna nella fotografia fosse la stessa che aveva visto sui video della sicurezza al Cleo e al Flamingo. Ma dentro di sé ne era convinto.
Esaminò i pochi ritagli restanti finché non giunse all'ultimo articolo. Questo riportava un'altra foto di Cassidy Black. Era vestita con una tuta carceraria e ammanettata, mentre due guardie la scortavano fuori dal tribunale.
C'era qualcosa che gli piaceva nel suo modo di tenere il mento sollevato e nello sguardo fiero. Dimostrava di non avere perso la sua dignità, nonostante la situazione umiliante.
Gli occhi di Karch scivolarono sull'articolo. Era l'ultimo capitolo della saga. Era un breve testo, ormai sepolto nelle pagine interne del Sun.
IL CASO DEL "TOPO D'AZZARDO": CASSIDY BLACK
SI DICHIARA COLPEVOLE E VIENE CONDANNATA
di Darlene Gunter
redazione Sun
Cassidy Black si è dichiarata colpevole questo lunedì delle imputazioni per la serie di crimini sfociati nella drammatica morte del suo compagno, avvenuta due mesi fa.
Dopo un accordo con l'ufficio della procura distrettuale della contea di Clark, la ventiseienne ex croupier si è riconosciuta colpevole delle accuse di omicidio colposo e di associazione a delinquere. Il giudice di circoscrizione Barbara Kaylor l'ha così condannata a scontare una pena da cinque a quindici anni.
Il legale di Cassidy Black, Jack Miller, ha detto che l'accordo era la soluzione migliore per la sua assistita, considerando le prove schiaccianti del suo coinvolgimento con Maxwell James Freeling nella serie di furti durata sette mesi e conclusasi con il suo arresto dopo la morte di Freeling, precipitato da una vetrata dell'attico al ventesimo piano dell'Hotel-Casino Cleopatra.
«Questo accordo le dà la possibilità di ricominciare una nuova vita in futuro» ha detto Miller. «Se manterrà una buona condotta, potrebbe uscirne tra cinque o sei anni. Avrà davanti a sé tutto il tempo necessario per reinserirsi nella società.»
Karch lasciò cadere il ritaglio di giornale senza finire di leggerlo. L'ammissione di colpevolezza di Cassidy Black aveva evitato un dibattimento processuale che gli avrebbe imposto di testimoniare su quanto successo nella suite con Freeling. La condanna della ragazza gli aveva inoltre consentito di ritirare la ricompensa, anche se aveva dovuto fare causa all'Associazione dei casino. Tolte le spese legali e le tasse, ne era uscito con 26.000 dollari di guadagno, ma anche col guinzaglio di Grimaldi al collo. Era così diventato il suo tirapiedi preferito per ogni genere di lavoro sporco, compresi i viaggi nel deserto con il bagagliaio pieno.
Ma tutto ciò sta per cambiare, si disse Karch.
Presto. Molto presto.
Ripiegò con attenzione i ritagli di giornale e chiuse il raccoglitore. Poi chiuse anche la scatola di cereali riportandola in cucina e si avviò verso la porta.
Prima di uscire prese la borsa con gli abiti che aveva preparato in precedenza e scelse dall'attaccapanni un cappello di feltro. Ne guardò l'etichetta interna prima di metterselo. Era un Mallory, che l'etichetta pubblicizzava con lo slogan Per uno stile giovane. Se lo mise in testa appiattendone la tesa come avrebbe fatto un vecchio suonatore di jazz. Uscì infine di casa immergendosi nella luce candida e smagliante del sole.
25
Mentre attraversava il casino al Cleo, sentì di essere osservato. Guardò in su da sotto la tesa del cappello e vide Vincent Grimaldi che lo fissava irritato dal solito pulpito della galleria. Karch distolse lo sguardo e accelerò i passi in direzione degli ascensori.
Quando due minuti più tardi entrò nell'ufficio di Grimaldi, Karch fu accolto da un uomo grande e grosso: era il capo dei gorilla per le faccende interne al Cleo. Non ricordava bene il nome ma sapeva che finiva con una vocale: si chiamava Rocco o Franco, o qualcosa di simile.
«Sono qui» gli disse Karch.
«È tutta la mattina che cerchiamo di raggiungerti.»
Karch notò l'uso del plurale e il sorrisetto allusivo sul viso dell'altro che gli indicava la porta sulla galleria.
Facendo il giro della scrivania, Karch vide che era ingombra di attrezzi e cose varie: un trapano a batterie, una macchina fotografica Polaroid, una torcia, un tubetto di silicone... Raccolse il trapano notando che era stato avvolto in un pezzo di gomma nera cucita con filo da pesca.
«Abbiamo trovato tutta questa roba nel condotto di condizionamento della camera...»
«2015» disse Karch. «Lo so. Gli ho detto io di guardare là.»
Posò il trapano e restituì all'uomo il sorrisetto allusivo. Poi varcò la porta della galleria. Richiuse la porta dietro di sé senza staccare gli occhi dal tizio.
Grimaldi non si girò quando Karch lo raggiunse. Rimase con le mani strette alla ringhiera a fissare il mare di giocatori sotto di sé. Karch non era mai stato prima di allora sul pulpito. Si guardò intorno e rivolse gli occhi in basso, verso la sala da gioco, con un vago senso di timore reverenziale. Guardò dietro di sé e vide l'uomo dietro la porta a vetri che continuava a osservarlo. Si mise a fianco di Grimaldi.
«Vincent.»
«Dove sei stato, Jack? Ti ho cercato parecchio.»
«Scusa, Vincent, avevo un sacco di cose da sbrigare.»
«E cosa, cambiarti d'abito? Chi vorresti sembrare: Bugsy Siegel o Art Pepper?»
«Adesso sono qui, Vincent. Che cosa volevi dirmi?»
Grimaldi lo fissò per la prima volta con un'espressione di ammonimento.
«Mi chiedo se ho fatto bene a darti questo incarico. Io ho il culo scoperto e non ho nessuna idea di quello che stai facendo, tranne cambiarti il vestito e gironzolare con un cappello nuovo in testa. Forse dovrei passare la faccenda a Romero. Lui è in gamba in queste cose.»
Karch rimase imperturbabile. Era sicuro che Grimaldi si stesse soltanto sfogando.
«Se è questo che vuoi, Vincent... Ma credevo che rivolessi i tuoi soldi.»
«Certo che li voglio, dannazione!»
Alcuni giocatori a un tavolo di dadi sotto di loro sollevarono gli occhi, udendo la voce di Grimaldi. Giocavano proprio al tavolo su cui Max Freeling si era schiantato sei anni prima.
Karch decise che non era consigliabile tenere ulteriormente sulle spine Grimaldi.
«Ascolta, Vincent, sto lavorando al tuo problema, okay? Ho fatto progressi. Ho il nome della donna e so dove si trova. Sarei già per strada se tu non avessi continuato a tempestarmi di chiamate.»
Grimaldi si girò verso di lui con il viso illuminato dall'eccitazione.
«Sai chi è?»
«Sì.» Karch fece un cenno col capo verso il tavolo dei dadi sotto di loro. «Ricordi la storia di Max Freeling, vero? Quello che si è tuffato?»
«Certo.»
«Ricordi la ragazza che hanno arrestato? Il suo palo?»
«Sì. L'hanno spedita al fresco: si è presa quindici anni, mi pare.»
«Da cinque a quindici anni, Vincent. Ma deve aver fatto la brava, perché dopo averne scontati cinque è uscita. Questa notte era lei.»
«Stronzate. Era solo una complice. L'hai detto anche tu questa mattina che è stato il lavoro di un professionista, di qualcuno che sapeva esattamente cosa cazzo fare.»
«Lo so. Ma è stata lei. Credimi.»
«Dimmi come hai fatto a scoprirlo.»
Karch impiegò vari minuti per illustrargli nei dettagli come aveva rintracciato Jersey Paltz e come si era svolto l'interrogatorio.
«Quel gran figlio di puttana» disse Grimaldi di Paltz. «Spero che tu l'abbia sistemato a dovere.»
«Non devi più preoccuparti per Paltz.»
Il viso tagliente e abbronzato di Grimaldi fu attraversato da un sorriso che rivelò una dentatura dal candore smagliante.
«Non ti chiamano Jack di Picche per niente. L'uomo con la pala pronta nel bagagliaio.»
Karch non commentò. Si batté invece una mano sulla giacca, sotto il taschino.
«Ho qui gli ottomila che lei ha dato a Paltz per l'attrezzatura. Meno le mie spese. Te li lascio sulla scrivania.»
«Ottimo, Jack. E indovina un po': anch'io ho qualcosa per te. Anche noi abbiamo un nome.»
Karch lo fissò.
«Era Martin il complice all'interno?»
Grimaldi annuì.
«Ha cercato di fare il furbo, ma alla fine glielo abbiamo fatto sputare. Ci ha detto tutto, tranne il nome della ragazza perché non lo sapeva nemmeno lui. Quindi, con quello che hai scoperto tu, abbiamo il quadro completo.»
«Quale sarebbe?»
«Il colpo è stato organizzato da un tipo di Los Angeles: un certo Leo Renfro. Si è accordato con Martin e ha procurato la ragazza. È lui l'intermediario.»
«Come conosceva Martin?»
«Non lo conosceva. È stato messo in contatto con lui.»
«In che modo?»
«È qui che la faccenda si complica. È saltato fuori che Martin teneva gli occhi aperti per conto di Chicago. Quando lavorava al Nugget, qualche anno fa, era la spia di Joey Marks. Quando Marks e i suoi sono stati liquidati dall'FBI, sentendo che la terra gli scottava sotto i piedi, Martin ha lasciato il Nugget per trasferirsi qui e ricominciare da zero. Naturalmente, quando l'ho assunto, non sapevo niente di questa storia. Comunque, come ho detto, lui non conosceva quel Renfro. Ma quando ha cominciato a vedere Hidalgo che faceva il pieno al tavolo del baccarat e poi ogni sera saliva in camera con quella valigetta legata al polso, ha pensato che con lui si poteva ramazzare un bel malloppo. Ha informato Chicago e loro lo hanno messo in contatto con Renfro per organizzare il colpo.»
Karch ascoltava, ma come frastornato. La sola menzione di Chicago, che significava il coinvolgimento nel colpo del cosiddetto Sindacato, gli faceva pulsare il sangue nelle orecchie. Strinse le mani a pugno.
«Ehi, Jack, mi stai a sentire?»
Karch annuì.
«Sono qui.»
«Senti, so che cosa è successo a tuo padre e tutto il resto... Ma è meglio che tu sappia tutto, capisci?»
«Grazie, Vincent. Sei sicuro che Martin mirasse solo alle vincite al tavolo di Hidalgo? Non sapeva niente dei due milioni e mezzo?»
Grimaldi gli si accostò di un passo. Sulle labbra aveva un pallido sorriso per nulla divertito.
«Diciamo solo che su questo punto lo abbiamo interrogato a lungo, con molta cura. E la risposta è che lui non lo sapeva. E che Chicago non lo sapeva. Doveva essere un colpo per intascare le vincite al casino. È andata come hai detto tu, Jack: io ho sbagliato aprendo un credito di gioco a Hidalgo. Lui ha attirato gli squali: Martin e i suoi amici di Chicago. Tutti quelli coinvolti nella storia lavorano per Chicago.»
Karch annuì seccamente e tenne le labbra serrate.
«Comunque, se la ragazza vive a Los Angeles e pure Renfro è di Los Angeles, i soldi dovrebbero essere là. Devi andare a riprenderli prima che finiscano a Chicago.»
«Probabilmente saranno già là, Vincent.»
«Forse sì, forse no. Non dimenticare che lei ha ucciso Hidalgo. Magari vogliono aspettare che il chiasso si attenui prima di fare un'altra mossa. Dobbiamo andare sul posto ed esserne sicuri. E poi, anche se hanno già consegnato i soldi, voglio che questa gente venga sistemata. Conosci la musica.»
Grimaldi guardò l'orologio.
«Io credo che abbiamo ancora qualche possibilità di recuperare i quattrini. Sono passate solo sei ore e sappiamo come si è svolta la faccenda. Vai là e riprendi i soldi. Hai già i dati della ragazza?»
«Non ancora. Venendo qui da Los Angeles, probabilmente ha infranto la libertà su parola. Dovrei controllare per esserne certo, ma lascerei delle tracce ufficiali, e non credo che tu lo voglia, Vincent.»
«No. Quindi tienila come ultima risorsa. Forse dovresti cominciare da Renfro, per poi risalire a lei.»
Karch annuì.
«Hai un suo indirizzo?»
Grimaldi scosse la testa.
«Abbiamo un numero di cellulare. Il nome e il numero è tutto quello che sapeva Martin. Ti darò anche il nome di un tipo che conosco a Los Angeles. Se ti serve aiuto per qualunque cosa, chiamalo e spiegagli la situazione. È un tipo sicuro e ha un sacco di contatti che sarà ben contento di attivare per te.»
«D'accordo, Vincent.»
«Adesso fila all'aeroporto. Potresti essere a Los Angeles già alle tre, così...»
«Non vado in aereo, Vincent. Io non volo mai.»
«Jack, il tempo stringe.»
«Allora chiedi al tuo tipo di Los Angeles di cominciare a occuparsene. Io andrò in macchina. Sarò là prima delle cinque.»
«E va bene. Vai pure in macchina. In tal caso potresti fare un'altra fermata nel deserto per me. Sai, lungo la strada.»
Karch lo guardò in silenzio.
«Ho ancora il grassone e Martin in un contenitore per la lavanderia giù alla zona di carico.»
«Abbandonati là come se niente fosse?»
«Ho messo Longo di sorveglianza. Non si avvicinerà nessuno.»
Karch scrollò il capo.
«Allora incarica i tuoi Longo e Romero di occuparsene. Considerami già per strada, Vincent.»
Grimaldi gli puntò contro un dito.
«D'accordo, Jack, ma stavolta voglio che tu mi tenga informato. Capito?»
«Perfettamente.»
«Allora, vai e prendi quei soldi, Jack.»
Prima di lasciare il pulpito, Karch diede un'ultima occhiata all'enorme sala da gioco sottostante. Gli piaceva la vista da lassù. Annuì soddisfatto e si allontanò.
III
26
A mezzogiorno Cassie Black premette il campanello della porta di Leo Renfro e poco ci mancò che le sfuggisse un urlo: quel semplice gesto le aveva infatti provocato una violenta fitta al braccio dolorante. Quando Leo le aprì gli passò velocemente davanti con la valigetta. Lui controllò la strada e poi richiuse la porta. Nella mano impugnava una pistola. Cassie cominciò a parlare prima ancora che lui potesse aprire bocca.
«Abbiamo un grosso problema, Leo. Questa roba era... Ma cosa ci fai con quella?»
«Non qui all'ingresso. Vieni, andiamo a parlare in ufficio.»
«Cos'è, un'altra stronzata alla Feng Shui?»
«No, alla John Gotti. Cosa cazzo te ne frega? Vieni!»
La precedette attraverso la casa fino all'ufficio sul retro. Indossava un accappatoio bianco e aveva i capelli bagnati. Cassie immaginò che stesse facendo qualche vasca in piscina.
Entrarono nell'ufficio, dove Cassie sollevò la valigetta con il braccio destro sbattendola sulla scrivania.
«Cristo santo, vacci piano! Stavo per dare i numeri, bloccato qui ad aspettarti. Dove cazzo sei stata?»
«Con il culo per terra sul pavimento del soggiorno.»
Lei indicò la valigetta.
«Questa stronza fottuta ha cercato di fulminarmi.»
«Cosa?»
«C'è un Taser incorporato. Ho provato ad aprirla ed è stato come se mi avesse colpito un fulmine. Mi ha stesa di brutto, Leo. Per tre ore. Guarda qui.»
Si piegò in avanti e con entrambe le mani si diradò i capelli. Sulla cute c'erano un taglio superficiale e un gonfiore che aveva l'aria di essere piuttosto doloroso.
«Ho picchiato contro lo spigolo del tavolo quando sono caduta. Credo che la botta mi abbia stesa più della scarica elettrica.»
L'irritazione di Leo per la mancanza di notizie fu immediatamente sostituita da una sincera espressione di sorpresa e preoccupazione.
«Cristo! Sei sicura di stare bene? Sarà meglio che ti faccia vedere.»
«Il gomito mi fa più male della testa.»
«Sei rimasta svenuta per tutto questo tempo?»
«Quasi. Ho anche macchiato di sangue la moquette.»
«Cristo! Credevo che fossi morta. Stavo diventando matto. Ho chiamato Las Vegas e sai cos'ho saputo? Il mio uomo ha detto che là succedono cose strane.»
«Di cosa parli?»
«Quel tipo è scomparso. Il bersaglio. Come se non fosse mai stato là. Non è nella sua camera e il suo nome è sparito dai computer dell'albergo. Non c'è nessuna registrazione del suo soggiorno.»
«Davvero? Non è questo il peggio. Dai un'occhiata.»
Allungò le mani verso le chiusure della valigetta, ma Leo le strinse velocemente le braccia per bloccarla.
«No, no, non farlo!»
Lei scrollò le spalle.
«È tutto a posto, Leo. Avevo dei guanti di gomma robusta... come quelli che usano gli operai che trafficano con l'alta tensione. Ci ho dato sotto per quasi un'ora con i grimaldelli, ma alla fine l'ho aperta. Ho staccato la batteria. Ma non è questo il punto. Guarda qui.»
Aprì le serrature e sollevò il coperchio. La valigia era piena zeppa di mazzette di banconote di grosso taglio chiuse in sacchetti di plastica. Cassie vide Leo spalancare la bocca e poi corrugare la fronte con un'espressione preoccupata. Sapevano entrambi che la vista di una valigia piena di banconote non era un motivo immediato per festeggiare. Non era la pignatta piena d'oro alla fine della fiaba di ogni ladro. Piuttosto, era motivo di grattacapi. Come gli avvocati che nei processi non pongono mai a un testimone domande di cui non conoscano già la risposta, i ladri professionisti cercano di non rubare mai alla cieca.
Passarono dieci secondi buoni prima che Leo riuscisse a parlare.
«Cazzo...»
«Già.»
«Cazzo!»
«Lo so.»
«Li hai contati?»
Cassie annuì.
«Stai guardando due milioni e mezzo di dollari in contanti. Ma il nostro uomo non ha mai vinto tutti questi soldi, Leo. Non è denaro che proviene dal gioco: lui è arrivato a Las Vegas già con il malloppo.»
«Calma, calma. Riflettiamo un momento.»
Cassie cominciò a massaggiarsi il gomito dolorante.
«Su cosa vuoi riflettere? Lui non ha vinto questi soldi a Las Vegas. Punto e basta, Leo. Li ha portati con sé. Era certo un pagamento di qualche genere. Forse droga, forse qualcos'altro. Ma noi gliel'abbiamo rubato - io gliel'ho rubato - prima che venisse consegnato. Secondo me insomma il tipo, il bersaglio, era solo un corriere. Non aveva con sé nemmeno la chiave per aprire la valigetta. Doveva solo consegnarla, e probabilmente non sapeva nemmeno cosa contenesse esattamente.»
«Non aveva la chiave?»
«Leo, mi ascolti quando parlo? Ti ho detto che sono finita col culo per terra cercando di aprire questa roba. L'avrei fatto se avessi avuto la chiave?»
«Scusa, scusa, l'avevo dimenticato...»
«Io gli ho preso le chiavi: quella della valigetta non c'era.»
Leo si lasciò cadere sulla poltrona. Intanto Cassie posava lo zainetto sulla scrivania e cominciava a frugarci dentro. Tirò fuori quattro mazzette di biglietti fermate con elastici e le posò sulla scrivania.
«Questi sono i soldi che ha vinto. Centoventicinquemila. Metà delle informazioni che hai avuto dal tuo uomo o dai tuoi soci non valevano un cazzo.»
Infilò di nuovo la mano nello zainetto. Estrasse il portafoglio che aveva preso dal comodino nella suite 2014 e lo lanciò a Leo.
«Quel tipo non si chiamava Hernandez e non veniva dal Texas.»
Leo aprì il portafoglio e vide, nell'apposita tasca trasparente, una patente della Florida.
«Manuel Hidalgo» disse. «Miami.»
«Dentro ci sono dei biglietti da visita. È un avvocato di una qualche azienda che si chiama Buena Suerte Corporation.»
Leo scosse la testa, ma lentamente, come se cercasse di scrollarsi di dosso quell'informazione. Cassie non aggiunse altro. Appoggiò le mani sulla scrivania e si chinò, guardandolo con l'aria di una che si aspetta delle spiegazioni. Leo guardò fuori, verso la piscina.
Cassie seguì la direzione dello sguardo, ma vide solo il bocchettone dell'aspiratore automatico che si muoveva placido sulla superficie.
Lui tornò a guardarla.
«Non ne sapevo un bel niente, Cass, te lo giuro.»
«Per il denaro ti credo, Leo. Ma la Buena Suerte? Dimmi quello che sai.»
«Sono cubani di Miami e valgono un mucchio di quattrini.»
«Quattrini legali?»
Leo alzò le spalle con un gesto che suggeriva una risposta sia positiva sia negativa.
«Stanno cercando di comprare il Cleo» le spiegò.
Cassie si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona di fronte alla scrivania.
«Era una grossa bustarella per la licenza, allora... dunque, ho rubato una fottuta bustarella.»
«Riflettiamo con calma.»
«L'hai già detto, Leo.»
Si posò in grembo il braccio dolorante.
«Chi sono quelli per cui ti sei mosso? Prima non hai voluto dirmelo, ma adesso devi farlo.»
Leo annuì e si alzò. Andò alla porta scorrevole e l'aprì, avvicinandosi alla piscina. Si fermò sul bordo e chinò gli occhi sull'aspiratore che scivolava silenzioso sul fondo dell'acqua. Cassie lo raggiunse alle spalle. Lui le parlò senza staccare gli occhi dall'acqua.
«È gente di Las Vegas con interessi a Chicago.»
«Chicago. Vuoi dire il Sindacato, Leo?»
Non le rispose, ma nel suo silenzio c'era chiara la risposta.
«Come diavolo hai fatto a invischiarti con il Sindacato, Leo? Dimmelo.»
Lui cominciò a camminare lungo il bordo della piscina, le mani affondate con forza nelle tasche dell'accappatoio.
«Senti, prima di tutto sono abbastanza furbo da sapere che non conviene invischiarsi con il Sindacato, okay? Concedimi almeno questo, d'accordo? Cazzo, non avevo scelta!»
«Va bene, Leo, capisco. Però raccontami la storia.»
«È cominciato tutto circa un anno fa. Ho conosciuto quei tipi. Ero a Santa Anita e là ho visto Carl Lennertz. Te lo ricordi?»
Cassie annuì. Lennertz era specializzato nello scouting, ossia teneva sempre gli occhi bene aperti per identificare i colpi migliori. Vendeva informazioni a Leo, di solito incassando un compenso fisso o il dieci per cento della cifra intascata da Leo. Cassie lo aveva incontrato una volta o due insieme a Leo e Max diversi anni prima.
«È stato lui a presentarmi questi tipi. Erano due che amavano starsene in panchina a bordo pista, attenti a finanziare qualche movimento qua e là. Sembrava solo gente che aveva voglia di investire.»
«E tu li hai presi in parola.»
Un camion con la marmitta difettosa passò ruggendo sulla vicina freeway e Leo non rispose finché il baccano non si attenuò.
«Non vedevo motivi per dubitare di loro. Erano insieme a Carl, e lui è un tipo a posto. E poi, in quel periodo gli affari non marciavano molto bene, stavo raschiando il fondo. Mi serviva denaro per organizzare qualcosa e mi sono capitati quei due. Così dopo un po' ho fissato un incontro, ci siamo visti e ho chiesto di finanziarmi un paio di progetti. Quelli hanno detto subito di sì, senza nessun problema.»
Si avvicinò al bordo della piscina dove stava appoggiata una reticella fissata a una canna di tre metri. La prese e l'allungò sull'acqua per recuperare dalla piscina il cadavere di un colibrì.
«Povere bestie, non capiscono che si tratta di una piscina. Così si tuffano in picchiata e ci restano secchi. È il terzo questa settimana.»
Scosse la testa.
«I colibrì morti portano sfortuna, lo sai?»
Gettò l'uccellino oltre la palizzata, nel cortile di un vicino. Cassie si domandò se i tre colibrì morti non fossero in realtà lo stesso uccello che il vicino continuava a rilanciare di qua dalla palizzata, dentro la piscina. Ma non disse niente. Voleva che Leo tornasse al suo racconto.
Leo appoggiò la reticella alla palizzata e si avvicinò a Cassie.
«È cominciata così. Ho avuto da loro sessantacinquemila dollari con l'accordo di restituirne centomila al saldo dei lavori. Pensavo di farcela in sei settimane al massimo. Un lavoro riguardava dei diamanti, che si piazzano sempre alla svelta. L'altro era un magazzino... mobili italiani. In entrambi i casi avevo già un acquirente in Pennsylvania, e contavo che le sei settimane mi avrebbero permesso di incassare anche da lui. La mia fetta sarebbe stata di duecento, mentre ai due dovevo restituirne cento. Niente male. I quattrini che mi avevano anticipato mi servivano per le informazioni, perché la gente con cui lavoravo aveva già la propria attrezzatura.»
Stava divagando, raccontava particolari marginali e non il modo in cui si era invischiato.
«Puoi saltare questi capitoli, Leo. Leggimi piuttosto l'ultima pagina.»
«L'ultima pagina è che entrambi i colpi sono finiti in merda. Le informazioni sui diamanti erano fasulle. Una truffa. Le ho pagate quaranta testoni e il tipo è sparito. Poi i mobili si sono rivelati un'altra fregatura... fabbricati a Mexicali. Pezzi contraffatti, con le targhette Made in Italy false come quasi tutte le tette che vedi in questa città. L'ho saputo solo quando ho mandato il camion fino a Philadelphia e il compratore ha dato un'occhiata. Ho abbandonato il camion lungo la strada, a Trenton.»
Fece una pausa come per ricordare qualche altro particolare, poi agitò una mano con un gesto rassegnato.
«È andata così. Dovevo centomila dollari a quei tipi e non li avevo. Ho spiegato loro la situazione e si sono mostrati comprensivi come un giudice con una battona di strada. Ero comunque convinto di poter guadagnare un po' di tempo per pagare il mio fottuto debito, ma quelli, appena ho girato le spalle, lo hanno venduto a qualcun altro.»
Cassie annuì. Adesso poteva quasi finire la storia da sola.
«Allora si fanno vivi questi altri due tipi e dicono che rappresentano il mio nuovo creditore» spiegò Leo. «Mi fanno capire che il nuovo creditore è il Sindacato senza neanche doverlo nominare. Capisci cosa intendo? Mi dicono che dobbiamo trovare un accordo per il pagamento. Così mi è toccato pagare due testoni alla settimana solo di interessi, per restare a galla. Mi stavano uccidendo. Ero ancora in debito di centomila e non sarei mai riuscito a venirne fuori. Mai. Finché un giorno vengono da me con una proposta.»
«Di che genere?»
«Mi parlano di questo lavoro.»
Indicò attraverso la porta scorrevole aperta la valigetta sulla scrivania.
«Mi dicono di organizzarlo insieme al loro uomo di Las Vegas. Se avessi accettato avrebbero estinto il mio debito e mi avrebbero dato anche una fetta del ricavato.»
Leo scosse la testa. Si avvicinò al tavolo e alle sedie dal lato meno profondo della piscina e si sedette. Impugnò la manovella di un ombrellone. Cominciò a girarla e l'ombrellone si aprì come un fiore. Cassie lo raggiunse e si mise seduta anche lei, proteggendosi il gomito dolorante con la mano destra.
«Quindi è ovvio che sapevano cosa c'era nella valigetta» gli disse.
«Forse.»
«Niente forse: lo sapevano. Altrimenti non sarebbero stati così magnanimi con te. Quando vengono a prenderla?»
«Non lo so. Sto aspettando che chiamino.»
«Ti hanno dato un nome?»
«Cosa intendi dire?»
«Un nome, Leo. Il nome di chi ha rilevato il tuo debito.»
«Sì: Turcello. Lo stesso nome che c'era sulla busta per te, al banco del Cleo. Pare che sia stato lui a rimettere insieme i pezzi dell'organizzazione dopo che Joey Marks ci ha lasciato le penne.»
Cassie distolse lo sguardo. Non conosceva il nome Turcello ma sapeva chi era Joey Marks: l'uomo di punta del Sindacato a Las Vegas... protagonista di una lunga serie di crimini. Il suo vero nome era Joseph Marconi ma era universalmente noto come Joey Marks per i ricordini che lasciava alle sue vittime, o almeno a quelle cui consentiva di continuare a vivere. Cassie si ricordò di come lei e Max avessero vissuto per un anno nel terrore di Marks, che pretendeva una percentuale sui loro colpi. Un giorno, in carcere, aveva letto su un giornale che Marks era rimasto ucciso sulla sua limousine nel corso di una strana sparatoria con l'FBI e la polizia, nel parcheggio di una banca a Las Vegas. Dopo la lettura dell'articolo aveva festeggiato: un brindisi da carcerata. Due dita di acquavite di mele, ottenuta in cambio di un pacchetto di sigarette.
Non sapeva che tipo fosse Turcello, il successore di Marks, ma immaginava che dovesse essere uno psicopatico quanto il suo predecessore.
«E adesso hai incastrato anche me» disse Cassie. «Grazie, Leo. Grazie davvero...»
«No, qui ti sbagli. Io ti ho protetta. Loro non sanno nemmeno che esisti. Ho accettato il lavoro e l'ho organizzato. Come ti ho già detto, nessuno conosce tutti i pezzi del puzzle. Non sanno niente di te e non lo sapranno mai.»
La promessa di Leo non bastava. Cassie non ce la faceva più a stare seduta. Le sembrò che tutta la sua vita le sfilasse davanti agli occhi. Si alzò e camminò fino al bordo della piscina, guardando l'acqua calma e limpida. Il braccio sinistro le pendeva lungo il fianco come un peso morto.
«Adesso cosa facciamo, Leo? Se ho capito bene, la mafia di Chicago ci ha usati per rubare una bustarella che i cubani di Miami stavano consegnando a qualche intermediario per l'acquisto del Cleo. Ci ritroviamo in mezzo a un campo di battaglia. Te ne rendi conto? Che cosa facciamo?»
Leo si alzò e le si avvicinò. La strinse a sé e parlò con calma.
«Non sanno niente di te. Te lo giuro. Non sanno niente e non lo sapranno mai. Non devi preoccuparti.»
Lei si staccò dall'abbraccio.
«E invece mi preoccupo, e molto. Torna con i piedi per terra, per favore!»
Il tono della sua voce zittì Leo, che sollevò le mani e le lasciò cadere in un gesto di rassegnazione. Cassie camminava avanti e indietro sul bordo della piscina. Dopo una lunga pausa si riprese.
«Cosa sai della Buena Suerte?»
«Come ti ho detto, ben poco. Ma farò qualche telefonata.»
Dopo un altro lungo silenzio, Leo scrollò le spalle.
«Forse possiamo semplicemente restituire i soldi e dire che è stato un errore» disse. «Trovare un intermediario che possa...»
«Così avremo Chicago contro, Leo. Quel Turcello... Cerchiamo di ragionare, d'accordo? Non possiamo farlo.»
«Potrei dire che quando sei entrata nella camera la valigetta non c'era.»
«Come no. Ti crederanno all'istante. Specialmente adesso che il bersaglio è misteriosamente svanito nel nulla.»
Leo ricadde sulla sedia sotto l'ombrellone. Sul suo viso si dipinse un'espressione di sconfitta. Ci fu un nuovo lungo silenzio, durante il quale nessuno dei due guardò l'altro.
«A volte si ruba troppo»disse Cassie, più a se stessa che a Leo.
«Cosa?»
«Max diceva che a volte si ruba troppo. Noi lo abbiamo appena fatto.»
Leo rimase assorto. Cassie incrociò con cautela le braccia sul petto. Quando riprese la parola, la sua voce era più forte, risoluta. Fissò Leo.
«Prendiamoci i soldi, tutti quanti. Ce li dividiamo e filiamo. Un milione e trecento a testa. È più che sufficiente. Che Chicago e Miami si fottano. Prendiamoci tutto e filiamo.»
Leo scosse la testa prima ancora che lei finisse di parlare.
«Assolutamente no.»
«Leo...»
«Non se ne parla nemmeno. Credi di riuscire a sfuggire a questa gente? Dove avresti intenzione di andare? Fammi il nome di un posto dove valga la pena vivere e dove loro non potranno trovarti. Non esiste. Ti daranno la caccia fino all'altro fottuto capo della terra solo per una questione di principio. Riporteranno le tue mani a Chicago o Miami dentro una scatola da scarpe e le metteranno in mostra al pranzo domenicale dei pezzi grossi.»
«Correrò i miei rischi. Non ho niente da perdere.»
«Io sì! Qui ho tutte le mie cose. Mi sono sistemato, e l'ultima cosa che voglio è passare il resto della mia vita cambiando nome ogni mese.»
Cassie si avvicinò al tavolo accucciandosi accanto alla sedia di Leo. Si attaccò al bracciolo di plastica con entrambe le mani e lo guardò negli occhi, ma lui volse subito lo sguardo da un'altra parte.
«No, Cass, non posso.»
«Leo, puoi prenderti due milioni e io mi accontenterò del resto. È sempre più di quello che mi serve. Prenditi due milioni. Ti basteranno per....»
Lui si alzò e tornò al bordo della piscina. Cassie appoggiò la fronte contro il bracciolo. Sapeva che non sarebbe riuscita a convincerlo.
«Non si tratta dei soldi»disse Leo. «Non mi hai sentito? Non importa se è un milione o due. Che differenza fa se poi non riesci a goderteli? Se vuoi saperlo, un paio d'anni fa un tipo ci ha provato. Lo hanno rintracciato fino a Juneau, la fottuta capitale dell'Alaska. Sono andati là e lo hanno sventrato come un salmone appena pescato. Penso che ogni due o tre anni si sentano in dovere di dare un esempio, per tenere tutti gli altri in riga. Io non voglio diventare un loro esempio.»
Ancora accucciata come una bambina che giochi a nascondino, Cassie si girò parlandogli alle spalle.
«Allora cos'hai intenzione di fare? Aspettare finché qualcuno verrà qui a sventrarti? Che differenza fa se scappiamo? Almeno così avremo una possibilità.»
Leo chinò gli occhi sulla piscina. L'aspiratore si muoveva silenzioso sul fondo.
«Cazzo...» bofonchiò.
Quel tono lamentoso spinse Cassie a osservarlo con un'ombra di speranza. Cominciò a pensare che forse poteva ancora convincerlo. Aspettò che le dicesse qualcosa.
«Due giorni» disse finalmente lui continuando a fissare la piscina. «Dammi quarantotto ore per vedere cosa posso fare. Conosco della gente a Miami. Lasciami fare qualche telefonata, vedere cosa riesco a scoprire. Controllerò la situazione a Las Vegas e Chicago. Forse è possibile trovare una via d'uscita ragionevole. Sì, magari fare un accordo e ottenere anche una fetta per noi.»
Stava annuendo fra sé, preparandosi al più grosso negoziato della sua vita... anzi, delle loro vite. Non si voltò, e così non vide Cassie che scuoteva perplessa la testa. Era convinta che non avessero scampo. Si alzò e gli si mise al fianco.
«Leo, mettiti in testa una cosa: Turcello non ti darà mai un centesimo di quello che c'è nella valigetta. Non ne ha mai avuto la minima intenzione. Se chiami la sua gente e dici che i soldi li hai tu, sarà come gridare ai quattro venti: "Sono qui, ragazzi, venite a prendermi". E diventerai il salmone dell'anno.»
«No! Ti dico che riuscirò a trovare una via d'uscita per tutti e due. So come trattare con questa gente. Ricorda, si tratta pur sempre di soldi: se tutti ne avranno una fetta, forse riusciamo a venirne fuori.»
Cassie capì che non sarebbe mai riuscita a convincerlo. Si rassegnò.
«Okay, Leo, due giorni. Non di più. Dopo facciamo le parti e filiamo. Voglio almeno provarci.»
Lui annuì serio.
«Chiamami stasera. Forse saprò già qualcosa. Comunque ci sentiamo presto. Posso raggiungerti al salone?»
Cassie gli diede anche il numero del cellulare. Ormai l'eventualità che gli sbirri facessero irruzione in casa di Leo e trovassero quel numero su una sua agenda non la preoccupava più. Era un timore che sembrava risalire a un milione di anni prima.
«Ora vado, Leo. Cosa ne facciamo intanto dei soldi?»
Prima che lui potesse risponderle, Cassie si ricordò di una cosa che, nel turbinio degli ultimi eventi, le era completamente sfuggita di mente.
«Ehi, hai ricevuto i miei passaporti?»
«Mi hanno assicurato che sono in viaggio. Stasera controllerò di nuovo la casella. Se non ci sono stasera, ci saranno domani. Te lo garantisco.»
«Grazie, Leo.»
Leo annuì e Cassie si incamminò verso la porta scorrevole.
«Aspetta un attimo» le disse. «Dimmi una cosa: a che ora sei entrata nella camera?»
«Cosa?»
«Che ora era quando hai fatto il colpo? Avrai guardato l'orologio, immagino.»
Lei lo fissò. Aveva capito cosa voleva sapere.
«Erano le tre e cinque.»
«E di solito quanto ci vuole per fare il lavoro: da cinque a dieci minuti?»
«Normalmente.»
«Normalmente?»
«Il tipo ha ricevuto una telefonata. Io stavo dentro il guardaroba con la cassaforte. È suonato il telefono e lui ha parlato con qualcuno. Credo che fosse per il pagamento. Doveva farlo oggi. Poi ha riattaccato ed è andato in bagno.»
«E tu sei sgusciata fuori.»
«No. Sono rimasta nel guardaroba.»
«Per quanto tempo?»
«Finché non si è riaddormentato. Finché non l'ho sentito russare. Ho dovuto farlo, Leo. Uscire era troppo rischioso. Non potevo uscire finché...»
«Sei rimasta là dentro durante il vuoto di luna, non è così?»
«Non potevo evitarlo, Leo, è questo che sto cercando di...»
«Oh, Cristo!»
«Leo...»
«Te l'avevo detto. Ti avevo chiesto esplicitamente di rispettare quest'unica cosa...»
«Non ho potuto evitarlo. È arrivata la telefonata... una telefonata alle tre di notte, Leo. È stata solo sfortuna.»
Leo scosse la testa come se non la stesse neppure ascoltando.
«È stato questo, allora» disse. «Il vuoto di luna. Siamo...»
Non terminò la frase. Lei chiuse gli occhi.
«Mi dispiace, Leo. Davvero.»
Uno strano ronzio vicino all'orecchio sinistro catturò l'attenzione di Cassie. Si volse e vide un colibrì sospeso a mezz'aria, con le ali che frullavano veloci.
L'uccellino schizzò verso sinistra e poi si spostò sopra la piscina, abbassandosi a una trentina di centimetri dalla superficie immobile dell'acqua. Sembrava fissare il proprio riflesso nell'acqua. Poi si lanciò in basso fino a colpire con violenza la superficie. Le sue ali si agitarono freneticamente, ma ora erano troppo pesanti per il volo e lui rimase intrappolato nell'acqua.
«Continuo a dirvelo» commentò Leo. «Stupidi uccelli.»
Fece il giro della piscina per andare a prendere la reticella. Voleva tentare di salvargli la vita.
27
In prossimità di Los Angeles, Jack Karch uscì dalla Freeway 10 allo svincolo per l'aeroporto Ontano e seguì i cartelli del parcheggio. Percorse su e giù cinque lunghe file di auto ferme prima di trovare una Towncar del suo stesso modello, con targhe della California. Parcheggiò in doppia fila dietro l'auto. Lasciò il motore acceso e scese portando con sé il trapano a batteria che faceva parte degli attrezzi recuperati nell'impianto di condizionamento della suite 2015.
Il trapano funzionava perfettamente. Karch tolse le targhe del veicolo in meno di un minuto. Le infilò sotto il sedile anteriore della sua auto e si diresse all'uscita. Era rimasto nel parcheggio meno di dieci minuti e il cassiere, al casello, gli disse che per un tempo così breve non doveva pagare niente. Gli chiese però una sigaretta, e Karch fu più che felice di accontentarlo.
Karch era riuscito a tenere una buona media da Las Vegas, viaggiando a cento miglia all'ora fino ai primi ingorghi alle porte di Los Angeles. Per coprire le ultime cinquanta miglia aveva però impiegato un'estenuante ora, se non di più. Giunse alla conclusione che gli abitanti di Los Angeles guidavano proprio come camminavano i clienti dei casino, ossia ignari che altri potessero procedere a una diversa velocità con una meta precisa da raggiungere. In centro uscì dalla 10 per immettersi sulla 101 e dirigersi a nord-ovest verso la San Fernando Valley. Anche se ormai erano passati almeno un paio d'anni dalla sua ultima visita, Karch era stato a Los Angeles abbastanza per sapere come orientarsi. E comunque teneva una guida Thomas Brothers nella valigetta sul sedile accanto. Non era dell'ultima edizione, ma sarebbe bastata. Karch era diretto lì perché il numero di cellulare di Leo Renfro che Grimaldi aveva estorto a Martin aveva il prefisso 818, corrispondente alla brulicante zona nord della metropoli. Leo probabilmente viveva entro i confini del prefisso telefonico.
Uscì dalla freeway allo svincolo del Ventura Boulevard e proseguì finché vide una stazione di servizio con un telefono pubblico. Aprì la valigetta sul sedile del passeggero ed estrasse il foglio intestato del Cleopatra con il nome Leo Renfro e il numero di cellulare. C'era anche il nome del contatto di Grimaldi a Los Angeles, ma Karch non aveva intenzione di farsi vivo. Per nessun motivo avrebbe permesso a un perfetto sconosciuto di venire a conoscenza dei suoi affari. Sarebbe stata un'idiozia. Per lo stesso motivo Karch escluse di usare le proprie conoscenze nella polizia. Avrebbe rintracciato Leo Renfro e Cassie Black da sé, senza lasciare tracce del suo passaggio.
Incredibilmente, nella cabina c'era un elenco telefonico intatto. Karch lo sollevò e iniziò a consultare l'elenco dei cognomi, nell'improbabile speranza di trovare il nome che cercava. Infatti non c'era. Poi passò in rassegna le pagine dei negozi fino a trovare la pubblicità dei servizi telefonici cellulari. Compilò una lista delle compagnie più grandi con i relativi numeri. Poi, sull'angolo del ripiano sotto il telefono aprì un rotolo di monete da un quarto di dollaro e fece la prima telefonata.
Rispose una segreteria che forniva una serie di opzioni per i servizi. Karch scelse il servizio che cercava. La telefonata venne smistata allo sportello addebiti, che lo lasciò in attesa per due minuti prima che rispondesse una voce umana.
«Grazie per aver chiamato Los Angeles Cellular, posso esserle utile?»
«Sì» disse Karch. «Devo assentarmi dalla città per un certo periodo e vorrei chiudere il conto del mio cellulare.»
Dopo avergli magnificato i servizi fuori zona proposti dall'azienda, finalmente l'operatore arrivò al sodo.
«Nome?»
«Leo Renfro.»
«Numero di conto?»
«Non l'ho sotto mano al...»
«È lo stesso del suo numero di cellulare.»
«Oh, certo.»
Karch lesse dal foglio il numero telefonico che Grimaldi aveva estorto a Martin.
«Un istante, prego.»
«Faccia con comodo.»
All'altro capo della linea si sentì il rumore di una tastiera.
«Mi spiace, signore, ma non risulta nessun conto con quel nome o...»
Karch riappese e compose subito il numero della compagnia seguente della lista. Ripeté la storia più e più volte. Trovò la compagnia giusta solo alla settima telefonata. Renfro aveva un contratto con la compagnia SoCal Cellular. Quando l'operatore aprì il file sul suo computer, Karch passò alla parte finale della trappola.
«Potete spedire l'ultima bolletta al mio nuovo indirizzo di Phoenix? Se non è un problema.»
«Per niente, signore. Mi lasci inserire i dati per la chiusura del conto.»
«Oh, mi scusi.»
«Si figuri. Faccio in pochi secondi.»
«Non ho fretta.»
Karch lasciò passare qualche secondo, poi riprese.
«Senta, mi sono appena ricordato che dovrò tornare però a Los Angeles qualche giorno alla fine della prossima settimana per mettere a posto alcune faccende. Potrei aver bisogno del telefono... Che dice, forse sarà meglio che aspetti a chiudere il conto...»
«Come preferisce, signore.»
«Uh... facciamo così: aspettiamo.»
«D'accordo. Vuole aspettare anche per il cambio d'indirizzo?»
Karch sorrise. Funzionava sempre meglio quando era la vittima a offrire la battuta giusta.
«No, quello facciamolo... Però, ora che ci penso, forse è meglio aspettare. Tanto la posta mi viene già inoltrata dal vecchio recapito. Ma, un attimo, non mi ricordo, a che indirizzo mi spedite le bollette? A casa o in ufficio?»
«Non lo so, signore. 4000 Warner Boulevard, casella numero 520. Che indirizzo è?»
Karch non rispose. Era intento a scrivere l'indirizzo in cima al foglio.
«Signore?»
«È l'ufficio. Allora va bene così. Lasciamo tutto com'è. Me ne occuperò la prossima settimana.»
«Va bene. Grazie per avere scelto la SoCal Cellular.»
Riagganciò e tornò all'auto. Cercò l'indirizzo sull'elenco stradale e scoprì che aveva visto giusto. L'indirizzo era nella zona col prefisso 818. Ma non era a Los Angeles, bensì a Burbank. Mise in moto la Lincoln e controllò l'orologio digitale sul cruscotto. Erano le cinque in punto. Niente male, pensò.
Quindici minuti dopo parcheggiava la Lincoln a lato del marciapiede, di fronte a un servizio di caselle postali e spedizioni al 4000 di Warner Boulevard. Sarebbe stato fin troppo facile se l'indirizzo ottenuto dalla SoCal Cellular l'avesse portato direttamente a casa di Leo Renfro.
Controllò gli orari segnati all'ingresso. Il servizio avrebbe chiuso dopo quarantacinque minuti, ma un altro cartello sulla porta avvertiva che i clienti avevano accesso alle loro caselle ventiquattro ore su ventiquattro. Karch pensò al da farsi e decise che Renfro era probabilmente il tipo di persona che controllava la casella dopo l'orario di chiusura, per non farsi vedere dagli addetti del servizio. Su tale supposizione elaborò un piano.
Karch entrò nell'edificio. Era a forma di L, con il bancone alla fine di un braccio e l'altro braccio pieno di caselle postali allineate. A sinistra della porta c'era un altro banco con una graffatrice, del nastro adesivo e numerosi contenitori di plastica con penne, fermagli ed elastici. Karch vide un uomo indaffarato, piegato sul pavimento dietro il banco. Sopra di lui c'era una saracinesca a grata che consentiva di chiudere la parte commerciale dell'ufficio, permettendo però ai clienti muniti di una chiave per l'ingresso di accedere venti quattr'ore al giorno all'altro braccio dell'ufficio, dove stavano le caselle postali.
Karch guardò a sinistra e notò che le caselle erano del modello a finestrella, attraverso la quale il proprietario poteva sbirciare all'interno per controllare se c'era posta. Si avviò verso la zona delle caselle, e trovò rapidamente la numero 520. Dovette chinarsi per spiarvi dentro. Riuscì a scorgere una busta. Guardò rapidamente a destra: uno specchio posizionato nell'angolo in alto permetteva all'impiegato al bancone di controllare l'area delle caselle, ma il tipo era ancora intento ad armeggiare con qualcosa sul pavimento.
Karch estrasse una piccola torcia stilo dal taschino della camicia e l'accese. Illuminò l'interno della casella 520, riuscendo a leggere la scritta sulla busta. Era indirizzata a Leo Renfro. Non vide l'indirizzo del mittente, ma nell'angolo superiore sinistro c'era qualcosa. Si avvicinò ancora di più al vetro della finestrella e scoprì che erano dei numeri: 773.
Dal momento che nella casella c'era già della posta, Karch rifletté un attimo se procedere o meno col suo piano. Decise di procedere. Se funzionava, quel piano avrebbe avuto il vantaggio di confondere le idee al bersaglio, di indirizzarlo verso la trappola finale.
Karch si rimise in tasca la torcia e svoltò l'angolo dirigendosi al bancone. Dietro c'era un giovane poco più che ventenne. Stava versando delle palline di polistirolo in uno scatolone sul pavimento. Gli si rivolse senza alzare lo sguardo.
«Cosa posso fare per lei?»
Quel modo formale ma poco garbato infastidiva sempre Karch, anche se a Las Vegas era la consuetudine. Ma questa volta ne fu contento, perché non voleva che l'impiegato facesse troppa attenzione a lui.
«Mi serve una busta.»
«Che misura?»
«Non importa. Normale.»
«Numero dieci?»
L'impiegato lasciò un momento la sua occupazione e si accostò alla parete dietro il bancone. C'erano numerose scatole e buste di diverse dimensioni esposte come modelli sulla parete. Sotto di loro si trovavano le scorte, divise su vari ripiani a seconda delle misure. Karch guardò le buste e vide la numero dieci.
«Sì, la dieci va bene.»
«Imbottita, non imbottita?»
«Eh... imbottita.»
L'impiegato prese una busta dallo scaffale e tornò al bancone informandolo annoiato che il prezzo era cinquantadue centesimi, tasse incluse. Karch gli diede la cifra esatta.
«Bel cappello» aggiunse il commesso.
«Grazie.»
Karch portò la busta sul tavolo vicino all'ingresso. Sospettò per un attimo che il commento del ragazzo fosse ironico, ma preferì lasciar correre.
Voltandogli la schiena, Karch frugò nella tasca interna della giacca e ne cavò la busta che conteneva l'asso di cuori trovato sul pavimento durante la perquisizione della stanza 2015, al Cleopatra. La estrasse e la infilò nella busta, che chiuse con la graffatrice.
Usando il pennarello con la punta più grande, indirizzò la busta a Leo Renfro. A caratteri cubitali scrisse URGENTE! su entrambi i lati. Sulle righe destinate all'indirizzo del mittente scrisse 773 e sul retro segnò il numero di cellulare di Leo Renfro.
Tornò al bancone di servizio e vide che il commesso stava sigillando con nastro adesivo lo scatolone sul pavimento. Anche questa volta non alzò lo sguardo. Karch riuscì a intravederne il cartellino fissato alla camicia: si chiamava STEPHEN.
«Scusa, Steve, ti spiace metterla nell'apposita casella?»
Il giovane appoggiò imbronciato il nastro e si sporse dal bancone. Prese la busta che gli veniva tesa e la guardò come se la richiesta sollevasse qualche problema.
«Mi serve che ci sia messa subito perché il tizio controlla sempre la casella la mattina presto.»
Finalmente il giovanotto decise che poteva occuparsi dell'incarico e si diresse verso la stanza della posta da smistare.
«Il mio nome è Stephen»esclamò rivolto verso Karch, allontanandosi.
Karch si staccò dal bancone e voltò dietro l'angolo procedendo fino alla casella 520. Osservò attraverso la finestrella: la sua busta comparve e andò a sovrapporsi alla precedente.
Karch uscì dal negozio prima ancora che il giovanotto tornasse al bancone. Mentre si dirigeva all'auto disse, a voce alta: «Sono cinquantadue centesimi... Il mio nome è Stephen».
Salito sulla Lincoln ripeté quelle frasi di nuovo, e poi ancora varie volte, lavorando sull'intonazione e ottenendo qualcosa di molto simile al tono seccato dell'impiegato. Quando stabilì di averlo imitato bene, mise in moto la macchina e si allontanò.
Per fare quella chiamata non poteva usare una cabina telefonica all'aperto, con il rumore del traffico in sottofondo. Girò dunque per le vie di Burbank una decina di minuti alla ricerca del posto adatto. Infine vide un ristorante chiamato Bob's Big Boy e parcheggiò sul retro, facendo retromarcia sino ad accostarsi a un cassonetto.
Nel ristorante trovò il telefono. Era nel corridoio che portava ai gabinetti. Inserì la moneta e chiamò il numero di cellulare di Leo Renfro. Si rese conto del rischio che stava correndo: la casella di Renfro era uno sparo nel buio. Anche se ovviamente era a nome suo, Karch non poteva sapere se il gestore del servizio aveva il numero del cellulare del cliente. Ma il suo piano comprendeva già una scappatoia.
Il telefono squillò due volte prima di essere attivato, ma nessuno disse nulla.
«Pronto?» disse infine Karch, con la voce che imitava al meglio il timbro acuto di Stephen.
«Chi parla?»
«Signor Renfro? Sono Stephen, della Warner Post & Pack It.»
«Come ha avuto questo numero?»
«È sulla busta.»
«Quale busta?»
Karch si concentrò sulla voce.
«È per questo che la sto chiamando. Ha ricevuto una busta, oggi. È segnata come urgente e dice di non ritardare la consegna. C'era il suo numero di telefono. Non so... così ho pensato di chiamarla. Stiamo chiudendo e lei non è passato. Ho pensato di chiamarla nel caso, sa, che stesse aspettando qualcosa di urgente...»
«C'è l'indirizzo del mittente?»
«Sì... cioè, no. C'è scritto soltanto sette-sette-tre.»
«Va bene. Grazie. Ma per cortesia: non telefoni mai più.»
Renfro chiuse immediatamente la comunicazione. Karch tenne il telefono all'orecchio come per dare la possibilità a Renfro di riprendere la linea e chiedere qualcos'altro. Dopo un po' riagganciò anche lui. Aveva funzionato. Ne era sicuro. L'impressione che si era fatto di Renfro durante la breve conversazione, gli suggeriva che si trattava di un tipo paranoico. Questo voleva dire che forse lo aspettava una lunga notte di appostamento presso l'agenzia postale.
Andò al banco del ristorante e ordinò due hamburger ben cotti con ketchup a parte e due tazze di caffè nero. Mentre attendeva che lo servissero uscì nel parcheggio. Prese dall'auto le targhe rubate all'aeroporto e sostituì la propria targa posteriore. Il cassonetto fornì la necessaria copertura visiva. Poi montò in auto, fece manovra e parcheggiò, facendo in modo che stavolta fosse il muso dell'auto ad essere celato dal cassonetto.
Cambiò anche la targa anteriore. Il trapano di Cassie Black rese il lavoro uno scherzo. Decise che l'avrebbe tenuto per sé a fine lavoro. Il trapano e qualche altra cosetta...
28
Un ultimo tuffo al cuore si aggiunse a una giornata già spaventosa. Cassie sedeva sulla Boxster, con il motore acceso, di fronte alla casa sulla Lookout Mountain Road. La famiglia aveva lasciato aperta la tenda della grande finestra sul giardino. Poteva così vedere l'interno, fino alla cucina illuminata dove tutti e tre stavano mangiando, seduti a tavola. Da dove si trovava, Cassie non poteva vedere la bambina, ma il giorno della visita organizzata dall'agenzia immobiliare aveva notato che sopra una sedia c'era un grosso elenco del telefono. Probabilmente la bambina si considerava troppo grande per un seggiolone, tuttavia aveva ancora bisogno di quei centimetri supplementari per sedere a tavola con i grandi.
Distolse gli occhi dalla casa per posarli sul cartello IN VENDITA. Al paletto era stata attaccata un'assicella di legno dipinto, appena sotto il nome dell'agenzia immobiliare.
IN TRATTATIVA
Cassie non aveva mai comprato una casa prima ma sapeva che quella scritta burocratica significava che era stata accettata un'offerta. La casa era dunque in procinto di essere venduta. Presto la famiglia si sarebbe trasferita. Strinse con forza il volante, e quel gesto le fece pulsare dolorosamente il gomito e la spalla. Ripensò all'idea di Leo di restituire il denaro. Sapeva che non ci sarebbe stato tempo per un altro colpo... e che nessun altro colpo le avrebbe offerto tanto quanto la valigetta sottratta al Cleopatra.
Sperò che i tentativi di Leo fallissero. Lei quei soldi li voleva. Voleva fuggire.
Squillò il cellulare. Lo recuperò velocemente dallo zainetto e rispose. Era Leo, ma non disse il proprio nome. Il collegamento era molto disturbato. Rimase comunque sorpresa che la chiamata riuscisse a raggiungerla fra quelle colline.
«Come va?» chiese lui.
«Come prima.»
«Sai quei... che stavi aspettando? Ho appena ricevuto una telefonata. Sembra che... a ritirarli stasera.»
Nonostante i vuoti nella comunicazione, Cassie riuscì a capirne il senso.
«Bene. Ma non mi serviranno a molto se non avrò i soldi.»
«...cora lavorando sopra. Ho chiamato... Forse domani saprò qualcosa. In un modo o nel...»
«E intanto cosa dovrei fare io?»
«Non ho capito.»
«Intanto cosa dovrei fare io?» ripeté lei più forte, come se il volume della voce potesse migliorare il collegamento e insieme la situazione.
«Ne abbiamo già parlato, Cass. Vai a lav... le tue solite cose. Tutto normale finché non avremo ris...»
«Sì, certo. Questo collegamento fa schifo! E io voglio andarmene!»
Sapeva che la sua voce gli sarebbe giunta cupa e imbronciata, ma non le importava.
«Senti, tesoro, siamo quasi alla fine. Aspetto solo che...»
«Non voglio restituirli, Leo. Stiamo facendo un errore. Tu stai facendo un errore. Ho un presentimento. Dobbiamo andarcene. Scappare e basta. Adesso!»
Leo rimase silenzioso per un lungo istante. Non le rimproverò neppure di avere fatto il suo nome. Cassie pensava che il collegamento fosse caduto, quando finalmente lui riprese.
«Cassie, ascoltami» le disse con voce esageratamente calma. «Anch'io ho... più del solito. Ma dobbiamo... e coprire tutte le basi. È l'unico modo per essere...»
Cassie scosse la testa e guardò un'altra volta il cartello dell'agenzia immobiliare.
«Certo, Leo. Come vuoi tu. Però chiamami, quando avrai deciso cosa fare della mia vita.»
Richiuse il telefono e lo spense, nell'eventualità che Leo tentasse di richiamarla. Poi ebbe l'improvvisa idea di penetrare in casa di Leo mentre lui dormiva e di portare via il denaro. Avrebbe preso solo la sua parte, lasciando il resto a Leo perché ne facesse l'uso che voleva. Ma per quanto fosse arrabbiata con lui, l'idea la riempì di un amaro senso di colpa. La ricacciò indietro e tornò a osservare la casa sull'altro lato della strada.
Il marito era in piedi accanto al tavolo e guardava verso la strada. Verso di lei. Lo vide posare il tovagliolo e girare attorno al tavolo. Voleva uscire per controllare? Voleva verificare che cosa ci facesse quell'automobile ferma proprio di fronte a casa sua? Cassie inserì velocemente la marcia e si allontanò con la Boxster.
29
Summer Wind: quella canzone faceva sempre lo stesso effetto a Karch. Ogni volta che il CD di Sinatra finiva, lui doveva premere il tasto del replay e ascoltarla di nuovo. Erano tutte belle le canzoni del disco, ma nessuna raggiungeva il livello di Summer Wind. Era il massimo della classe. Proprio come Sinatra.
Karch stava ascoltando quel brano per la quarta volta consecutiva, sorvegliando l'ingresso del Warner Post & Pack It dall'affollato parcheggio di un bar a mezzo isolato di distanza. Erano le undici esatte quando vide lampeggiare le luci dei freni di un'auto che superava l'agenzia postale. Una Jeep Cherokee nera, vecchia di almeno cinque anni. Era la seconda volta che la jeep transitava lentamente là davanti. Karch abbassò il volume del CD e si tenne pronto. Aveva indossato la sua solita tuta nera, anche se stavolta il suo campo d'azione non era più il deserto. Le maniche erano decorate con strisce di robusto nastro metallizzato che aveva tagliato in diverse lunghezze. Frugò nella valigetta e tirò fuori dall'imbottitura di gommapiuma il ricevitore GPS insieme all'astuccio del collegamento cellulare e l'antenna. Scelse gli attrezzi che gli sarebbero serviti e scese dalla Lincoln dopo aver fatto scattare l'apertura del bagagliaio, da dove prese il Rollerboy Mechanics Helper, un piccolo carrello per meccanici. Poi chiuse l'auto e attraversò rapidamente il Warner Boulevard.
Il Warner Post & Pack It occupava un edificio a un unico piano collocato in una lunga fila di edifici analoghi, separati uno dall'altro da nemmeno un metro di aria. Karch si infilò in una di queste strettoie a un edificio di distanza dall'agenzia. Il vicolo era largo circa sessanta centimetri, e col tempo si era trasformato in un anfratto dove i passanti scaricavano rifiuti di vario tipo. Karch si trovò a sprofondare fin quasi al ginocchio fra le immondizie... per lo più bottiglie e sacchetti accartocciati di fast food. Da quello spazio angusto esalava anche un fortissimo odore di urina. Il suo arrivo in quella sorta di canalone buio aveva indotto una qualche creatura invisibile a fuggire rumorosamente fra i rifiuti per rintanarsi più avanti nell'oscurità.
Karch si appostò a poco meno di un metro dallo spigolo, fuori dal fascio di luce della strada, e attese. Era sicuro che la Cherokee sarebbe tornata e che al volante ci fosse Leo Renfro. Karch si preparò a intervenire. Aveva già fatto varie volte interventi simili. Ma mai con la rapidità che sarebbe stata necessaria in quell'occasione. Calcolò di avere meno di un minuto per eseguire l'installazione. Non poteva permettersi ritardi né il minimo errore.
Il rumore di un'auto in avvicinamento si insinuò nel suo nascondiglio. Karch si accucciò nell'anfratto. Anche se Renfro avesse sbirciato fra gli edifici, ben difficilmente lo avrebbe notato, a meno di non fermarsi e puntare una luce nel vicolo.
L'auto sfilò lentamente, poi Karch la sentì fermarsi davanti all'ufficio postale. Con cautela si avvicinò all'angolo dell'edificio rimanendo appiccicato alla parete. Sbirciò dietro lo spigolo e vide che era proprio la Cherokee, ferma a lato del marciapiede con i fari e il motore ancora accesi. Karch si ritirò nel suo antro e attese. Sapeva che avrebbe potuto uscire e cogliere di sorpresa Renfro anche in quel momento, ma era troppo rischioso sequestrarlo all'aperto. Inoltre, cosa ben più importante, non era Renfro il suo vero obiettivo. I soldi avevano la priorità, e per giungere a quelli, doveva seguire l'uomo fino a casa sua, nel posto in cui si sentiva maggiormente al sicuro. Karch sapeva che là avrebbe trovato il modo per risalire a Cassie Black.
Il motore della Cherokee si spense. Karch si appiattì contro il muro, pronto a muoversi. Le sporgenze dure dell'intonaco gli si piantarono nella schiena. Si chinò in avanti per ascoltare meglio e sentì la portiera dell'auto che veniva prima aperta e poi richiusa. Dei passi si mossero rapidi sull'asfalto. Si spostò avanti e spiò di nuovo oltre lo spigolo. L'uomo, sui quarantacinque anni, di corporatura snella, infilava una chiave nella porta del Warner Post & Pack It.
Leo Renfro, senza dubbi.
Aperta la porta, l'uomo guardò su e giù lungo la strada. Karch si rintanò dietro l'angolo e attese. Quando sentì la porta dell'ufficio chiudersi, uscì velocemente dal nascondiglio e attraversò il marciapiede scendendo in strada. Accese la torcia stilo e se la ficcò in bocca. Poi, per avvicinarsi alla Cherokee, si piegò e procedette ingobbito. In passato aveva già effettuato un'installazione su una Cherokee e non prevedeva dunque sorprese.
Posò sull'asfalto il piccolo carrello Rollerboy e ci si sdraiò sulla schiena. Afferrò il bordo inferiore del paraurti e con uno strattone si spinse completamente sotto l'auto. Lo spazio era minimo e il metallo ancora bollente. Il petto sfiorava il telaio ingrassato in diversi punti, e doveva tenere la testa reclinata per non urtarlo e per non ustionarsi con i tubi di scarico roventi.
Si allungò una mano lungo le gambe e dalla capace tasca destra recuperò il ricevitore satellitare e la trasmittente CelluLink. I due minuscoli congegni erano stati legati con del nastro adesivo. Il sistema includeva anche una piccola ma robusta antenna per il collegamento cellulare. La base del ricevitore era formata da un magnete ad alte prestazioni. Sollevò il congegno e lo attaccò alla piastra del telaio proprio all'altezza del sedile di guida. Benché il magnete sembrasse tenere saldamente, Karch aveva l'abitudine di non lesinare sulle precauzioni. Dal braccio destro della tuta si staccò due lunghe strisce di nastro adesivo metallizzato che usò per fissare meglio il congegno alle strutture del telaio.
Servendosi del trapano silenzioso di Cassie Black, collegò velocemente il filo di terra al pianale dell'auto. Usò una vite autofilettante. Poi, con una spinta sgusciò da sotto l'auto fino al marciapiede. Si sollevò guardingo per sbirciare attraverso la vetrata, ma l'angolazione non gli permise di scorgere Renfro e stabilire quanto tempo gli restasse.
Tornò rapidamente sotto la vettura e abbassò la canalina elettrica che correva lungo la parte centrale del pianale. Usando un coltello Exacto tagliò nel senso della lunghezza l'involucro di plastica e ne estrasse in fretta un fascio di fili. Li sgranò fra le dita fino a trovare un cavetto rosso, un conduttore di corrente continua dalla batteria alla coda della macchina... probabilmente serviva ad accendere una luce nel bagagliaio. L'estremità del cavo di alimentazione del ricevitore GPS aveva un morsetto automatico. Karch lo agganciò al cavetto rosso e poi premette fino a quando sentì che tagliava il rivestimento di plastica e affondava la dentellatura nel filo conduttore. Osservò il ricevitore GPS: il chiarore della spia rossa trapelava attraverso il nastro.
Non aveva tempo a sufficienza per rimettere a posto tutti i fili. Si concentrò dunque sull'ultima fase dell'installazione: l'antenna GPS. Tirò fuori il piccolo disco dalla tasca nella gamba sinistra della tuta e cominciò a svolgerne il filo metallico. Aveva appena collegato il filo al ricevitore, quando sentì aprirsi la porta dell'agenzia. Girò subito la torcia stilo al contrario, in modo da avere l'estremità illuminata in bocca. Attese.
La porta si chiuse e Karch osservò i piedi di Renfro fare il giro intorno all'auto, verso il posto di guida. Karch avrebbe voluto bestemmiare, ma sapeva di dover conservare il più assoluto silenzio. Riprese a svolgere il filo dell'antenna. E attese di nuovo.
Quando Renfro aprì la portiera, Karch sfruttò quel rumore come copertura per spingersi verso il fondo della Cherokee. Adesso si trovava esattamente sotto il paraurti posteriore, con la parte inferiore del corpo che sporgeva dall'auto. Avvolse il filo dell'antenna intorno al tubo di scappamento proprio mentre il motore veniva avviato, investendolo con una violenta folata di caldo gas di scarico.
Karch soffocò un colpo di tosse e sollevò velocemente il dischetto piazzandolo sopra il paraurti, dove sarebbe stato in allineamento diretto con i satelliti in orbita. Usò l'ultimo pezzo di nastro che aveva sulla manica per fissare il filo e l'antenna al paraurti.
Non era un lavoro raffinato ma doveva accontentarsi, viste le circostanze. Sapeva che se Renfro avesse lanciato un'occhiata al retro della macchina, avrebbe individuato la presenza dell'antenna. Ma Karch puntava sul fatto che non l'avrebbe fatto, almeno per un po' di tempo. Tutto si giocava nell'ora successiva.
La Cherokee cominciò a scostarsi lentamente dal marciapiede. Karch lasciò che il paraurti retrostante gli sfiorasse il viso, poi rotolò velocemente giù dal Rollerboy e si strinse contro lo spigolo del marciapiede. Abbassò la testa e cercò di capire se ci fosse qualche esitazione nella guida della Cherokee. Non ne udì nessuna. Renfro tenne il piede sull'acceleratore e si allontanò senza che il rumore del motore segnalasse alcun ripensamento.
Finalmente Karch sollevò il viso, mentre la Cherokee si dileguava in lontananza. Sorrise e si rialzò.
Non appena risalito sulla sua Lincoln, Karch tolse il computer portatile dalla valigetta, alzò l'antenna e caricò il programma FasTrak. Con il congegno installato sull'auto di Renfro, ora avrebbe potuto seguire gli spostamenti della Cherokee grazie al GPS. Si trattava di un sistema di rilevamento globale capace di inviare il segnale dall'auto a una costellazione di tre satelliti in orbita sopra la Terra che poi lo rispedivano giù. La triangolazione satellitare forniva l'esatta posizione dell'auto, inviandone i dati al modem cellulare del computer di Karch. Il programma FasTrak gli consentiva dunque di seguire gli spostamenti dell'auto in tempo reale, visualizzandoli in mappe stradali sullo schermo del computer. Ma, volendo, Karch poteva anche scaricare sul computer i dati satellitari registrati degli spostamenti dell'auto.
In primo luogo, però, voleva accertarsi che l'installazione fosse riuscita. In caso contrario, aveva comunque la targa dell'auto e in mattinata avrebbe potuto rintracciare la vettura attraverso l'archivio della motorizzazione. Ma era una mossa che sperava di evitare, poiché richiedeva dei complici.
Digitò sulla tastiera il codice del ricevitore e la frequenza. L'attesa dei segnali gli sembrò interminabile, sino a fargli spuntare delle goccioline di sudore alla nuca. A un tratto sullo schermo cominciarono ad apparire delle mappe, poi le linee delle strade, poi le scritte. Ecco: Mappa regionale di Los Angeles. Poi notò una stellina rossa pulsante che cominciò a tracciare una linea. La scritta in fondo allo schermo forniva la posizione.
RlVERSIDE DRIVE - DIREZIONE OVEST - 23:14:06
Karch sorrise. Lo aveva in pugno: l'installazione era riuscita. Poteva seguire la mappa, fino al tesoro.
«Mi merito un fottuto dieci e lode» disse ad alta voce.
Per il momento decise di non seguire in auto gli spostamenti della Cherokee. Leo Renfro aveva sicuramente già aperto la busta, nell'agenzia postale o in macchina, e la carta da gioco al suo interno doveva essergli sembrata enigmatica, minacciosa. Secondo Karch - a giudicare dai due passaggi della Cherokee davanti all'ufficio prima della fermata finale - Leo Renfro avrebbe seguito un percorso tortuoso per raggiungere la sua destinazione, nell'intento di seminare ogni eventuale inseguitore. Digitò un comando per creare un file che raccogliesse i dati inviati dal satellite. Poi uscì dal programma e rimise il computer portatile nella valigetta.
Dopo aver abbassato la cerniera della tuta e aperto il finestrino, a Karch giunse un acuto grido femminile dal lato opposto del parcheggio. Si girò verso la fonte dell'urlo ma non scorse nulla. Aprì la portiera e scese guardandosi intorno. Si infilò una sigaretta in bocca e l'accese. Stava per risalire sulla Lincoln, quando sentì un secondo urlo e notò una BMW parcheggiata poco lontano.
Karch non portava addosso la solita Sig Sauer. Se l'era tolta, riponendola sotto il sedile prima di infilare la tuta. Adesso si sfilò la metà superiore della tuta e con una mano recuperò la piccola calibro 25 dalla tasca da prestigiatore cucita sulla parte interna dei pantaloni. Poi si annodò le braccia della tuta intorno alla vita e andò a indagare su quelle urla.
Reggendo la piccola pistola nera nella mano destra, avanzò noncurante lungo la fila di auto parcheggiate e raggiunse la BMW. Sentì i lamenti di una donna. Sull'altro lato dell'auto stava una coppia. L'uomo, piuttosto giovane, aveva rovesciato la donna sul cofano e ora le stava sopra baciandola sul collo, mentre lei continuava a ruotare la testa da una parte all'altra come se tentasse quasi di staccarsela dal resto del corpo.
«Tutto a posto qui?» esclamò Karch.
L'uomo sollevò la testa.
«Perché non ti fai i cazzi tuoi?»
Karch si avvicinò. L'uomo si staccò di colpo dalla donna girandosi verso di lui. Lo fronteggiò a braccia aperte e gambe divaricate, in attesa dello scontro.
«Perché non la lasci in pace?» disse Karch. «Non mi pare che lei...»
«Perché non vai a farti fottere? Lei sta benissimo. Semplicemente, le piace urlare. Contento?»
«Contento un cazzo. Forse è a te che piace farla urlare, perché ti vuoi sentire il re del mondo.»
Di colpo, il tizio si gettò in avanti con una carica che Karch si stava aspettando. Come un esperto torero schivò rapido l'animale che lo caricava e con le mani deviò lo slancio dell'avversario verso la fiancata di un furgone. L'uomo colpì la portiera a testa bassa, provocando una vistosa ammaccatura al pannello metallico. Mentre si raddrizzava e girava su se stesso, Karch lo affrontò. Si fece scivolare la calibro 25 fra le dita e la ficcò repentino sotto il mento dell'avversario premendo a fondo la canna nella parte molle.
«La senti questa? Sembra piccolina, vero? È una 25, poco più di una scacciacani. Poco affidabile, a meno che il bersaglio non sia vicino, come tu adesso. Se premo il grilletto la pallottola ti finisce dritta nel cervello. Ma non avrà abbastanza forza per uscire, così rimbalzerà là dentro tre o quattro volte, riducendo in poltiglia tutto quello che trova. Forse non ti ammazzerà neppure, ma dopo dovrai portare il bavaglino e viaggiare su una sedia a rotelle per il resto della tua...»
«Ehi, lascialo in pace» esclamò la ragazza alle sue spalle. «Non ha fatto niente.»
Karch commise l'errore di non guardarla.
«Stai zitta, restane fuori. Questo tipo...»
La donna afferrò inaspettatamente da dietro Karch, che usò il braccio sinistro per respingerla rudemente, mentre continuava a tenere la pistola premuta contro il collo dell'uomo. La sentì andare a sbattere con violenza contro la BMW e poi ruzzolare a terra.
«Johnny!» gridò lei.
«Visto cos'hai fatto?» strillò Johnny. «Il grand'uomo! Guardate cosa ha combinato il cavaliere nella sua armatura scintillante!»
Karch si staccò dal tipo e indietreggiò fino a inquadrare visivamente anche la ragazza. Era seduta a terra, con le gambe aperte e l'aria intontita. Johnny corse da lei, che gli buttò le braccia al collo. Poi ricominciò a piangere.
Karch si girò per tornare velocemente alla sua auto. Perché cazzo l'ho fatto? pensò. Il motivo per cui sono qui è un altro.
Salì sulla Lincoln, fece manovra e si allontanò sgommando. Dallo specchietto scorse Johnny, in piedi nel parcheggio, che lo guardava incarognito.
Karch accostò al marciapiede sul Magnolia Boulevard, accese la luce interna e prese dallo scomparto del cruscotto l'indice delle frequenze della National Law Enforcement Association. Aveva ottenuto quel libro da Iverson per 500 dollari. Elencava tutte le forze dell'ordine a livello federale, statale e locale, nonché le frequenze radio a loro assegnate. Stampata a grosse lettere in cima a ogni pagina c'era la scritta USO RISERVATO ALLE FORZE DELL'ORDINE. Karch era scoppiato a ridere la prima volta che l'aveva vista.
Trovò la voce del Dipartimento di polizia di Burbank e inserì le tre frequenze assegnate alle unità di pattuglia nello scanner installato sotto il cruscotto. Poi programmò una scansione alternata delle tre frequenze e rimase seduto ad ascoltare. Se la coppia con la quale si era appena scontrato aveva segnalato l'incidente del parcheggio, era meglio saperlo.
Le cose sembravano tranquille a Burbank, quel giovedì sera. Alle unità di pattuglia vennero segnalati un paio di litigi domestici, ma poi arrivò anche una chiamata per un'aggressione a mano armata al parcheggio.
«Merda!» sbottò Karch.
Picchiò un pugno sul volante. Guardò l'orologio: quasi mezzanotte. Sapeva di non essere troppo lontano dall'aeroporto di Burbank. Poteva andare là e cercare un'altra serie di targhe. Ma si stava facendo tardi e sapeva di doversi allontanare in fretta. Ingranò la marcia e guidò fino a trovare una strada tranquilla in una zona residenziale. La imboccò e proseguì per un isolato prima di fermarsi. Spense le luci, frugò sotto il sedile cercando le targhe originali della Lincoln e poi scese con il trapano. Un minuto dopo risaliva in macchina con le targhe rubate. Le ficcò sotto il sedile e ripartì. Percorse un intero isolato prima di riaccendere le luci.
Guidò verso ovest fermandosi soltanto quando fu ben lontano da Burbank, in piena North Hollywood. Ascoltò la descrizione che di lui trasmettevano sulle frequenze di Burbank e sorrise suo malgrado. Gli avevano rifilato trenta chili e dieci anni di troppo. Il resto della descrizione era talmente generico da non avere importanza. Il numero di targa fornito alle pattuglie corrispondeva esattamente a quello delle targhe sotto il sedile, ma la marca dell'auto non era specificata. Veniva descritta come una Ford nera. Karch accese una sigaretta e cercò di rilassarsi. Quella storia non gli avrebbe creato grossi problemi.
Era mezzanotte passata da poco. Karch pensò che Leo Renfro aveva avuto abbastanza tempo per raggiungere la sua destinazione, qualunque fosse. Si infilò nel parcheggio di un supermercato aperto tutta la notte e spense il motore. Aveva appena aperto il portatile, quando il suo cercapersone si fece sentire. Controllò il numero: Grimaldi. Decise di non richiamarlo e spense addirittura il cercapersone. Non voleva che suonasse di nuovo in un momento inopportuno.
Caricò il software FasTrack e digitò un comando per aprire il file registrato con i dati relativi agli spostamenti della trasmittente installata sotto l'auto di Leo Renfro. Sullo schermo comparve una mappa della zona nord di Los Angeles con una linea rossa che indicava i movimenti dell'auto. Karch aveva visto giusto. Renfro aveva compiuto un giro lungo e tortuoso per la Valley, guidando in tondo e facendo numerose inversioni di marcia. Il computer indicava che la trasmittente era rimasta ferma negli ultimi dodici minuti. Renfro si era dunque fermato. Il computer segnalava l'auto in Citron Street, a Tarzana.
«Eccomi, Leo, arrivo» disse ad alta voce Karch.
Rimise in moto la Lincoln e uscì dal parcheggio.
30
Trovare la Cherokee fu abbastanza facile. Era ferma su un vialetto davanti a una piccola casa lungo la Citron. Mentre la oltrepassava Karch si stupì che Renfro non l'avesse parcheggiata dentro il garage. Proseguì, facendo l'intero giro dell'isolato alla ricerca di qualcosa di insolito o di sospetto. Poi fermò la Lincoln a mezzo isolato dalla Cherokee, infilò di nuovo le braccia nelle maniche della tuta e si tirò su la cerniera. Estratta la Sig dalla fondina, vi agganciò il silenziatore. Lasciò la Lincoln aperta, nel caso fosse necessaria una fuga rapida. Poi risalì la strada a piedi.
Prima di accostarsi alla casa si inginocchiò accanto alla Cherokee e frugò sotto il telaio cercando il suo impianto satellitare. Lo staccò con uno strattone dal pianale e liberò i fili. Dopo di che passò sul retro dell'auto per recuperare l'antenna a disco. Nascose l'attrezzatura dentro la cassetta della posta, in fondo al vialetto. L'avrebbe ripresa più tardi, a lavoro finito.
Incuriosito dalla decisione di Renfro di parcheggiare l'auto all'aperto, si avvicinò al garage e puntò la torcia stilo attraverso un finestrino dell'ingresso. Vide che il garage era completamente pieno di casse di champagne. Immaginò che fosse un carico rubato. Si chiese se in seguito sarebbe valsa la pena di accaparrarsi quella partita per piazzarla da qualche parte. Probabilmente poteva venderla a Vincent Grimaldi con un buon margine di guadagno.
Mise da parte l'idea e si concentrò sul lavoro che lo aspettava. Passò davanti alla facciata principale della casa spostandosi verso il lato sinistro. Cercò cautamente indizi sulla presenza di cani. Gli allarmi non lo preoccupavano. La gente che lavorava dalla parte sbagliata della legge raramente usava allarmi, ben sapendo con quanta facilità potevano essere neutralizzati. Inoltre, i sistemi di sicurezza sembrano fatti apposta per far correre sul posto la polizia al minimo problema.
C'era un cancello di legno a circa metà del lato sinistro della casa. Karch lo superò facilmente lasciandosi cadere dall'altra parte. Fece scorrere la luce della torcia sull'erba e fra i cespugli che costeggiavano l'abitazione. Niente merda di cane e nessuna traccia di buche fra le piante. Spense la torcia e proseguì verso il giardino sul retro. La luna splendeva luminosa, non gli serviva altra luce.
Dall'angolo posteriore della casa Karch vide luccicare la superficie azzurra di una piscina. Proprio mentre stava per uscire allo scoperto sentì aprirsi una porta scorrevole. Ritornò frettolosamente dietro l'angolo, assumendo una posizione che gli consentisse di spiare sul retro della casa. Da una porta scorrevole uscì un tipo, che camminò fino al bordo della piscina. Sì, era lo stesso uomo entrato nell'agenzia: Renfro. Abbassò gli occhi sulla piscina, e Karch capì che osservava l'aspiratore automatico che si muoveva lento sul fondo. Poi l'uomo guardò in su come per ammirare la luna. Karch uscì da dietro l'angolo e sollevò la pistola.
Distratto dal rumore di fondo della vicina freeway, Renfro non sentì nulla sino a che Karch gli posò la fredda bocca dalla pistola contro la nuca. Allora contrasse i muscoli, ma non ne fu sorpreso più di tanto: la gente che faceva il suo mestiere, infatti, si aspettava sempre di sentirsi puntare alla nuca la canna fredda di una pistola.
«Bella nottata serena, vero?» disse Karch.
«Stavo appunto pensando lo stesso» rispose Leo. «Sei tu l'asso di cuori?»
«Sono io.»
«Sono stato attento, ma non mi sono accorto che mi seguissi.»
«Difatti non ti ho seguito. Sei rimasto indietro di un decennio, Leo. Ho piazzato una cimice satellitare sotto la tua macchina. Non ho avuto bisogno di seguirti.»
«Vivendo s'impara.»
«Può darsi. Andiamo dentro a parlare. Tieni le mani in alto, bene in vista.»
Karch afferrò con una mano Renfro per il colletto e con l'altra gli tenne la pistola premuta contro la schiena. Si diressero verso la porta.
«C'è qualcun altro lì dentro?»
«Nessuno.»
«Sicuro? Se trovo qualcuno lo ammazzo solo per farti capire che non scherzo.»
«Non ho dubbi. Ma non c'è nessuno.»
Dalla porta scorrevole sbucarono in un ufficio. Karch notò la scrivania a un capo della stanza e un'intera parete ricoperta da altre casse di champagne. Spintonò Renfro con forza verso la scrivania, poi allungò una mano dietro di sé e richiuse la porta.
«Rimani in piedi.»
Leo obbedì. Tenne le mani sollevate all'altezza delle spalle. Karch gli girò intorno e andò dietro la scrivania. Sul ripiano, oltre alla busta imbottita che gli aveva lasciato al Warner Post & Pack It, c'era anche la busta intravista dentro la casella postale. I lati superiori di entrambe le buste erano aperti. Karch sedette sulla poltroncina e guardò Renfro.
«Sei un uomo molto occupato, Leo.»
«Oh, non saprei. Gli affari vanno a rilento.»
«Davvero?» Fece un cenno col capo verso la parete dello champagne. «Sembra che tu sia pronto per qualche festeggiamento in grande stile.»
«Quello? È solo un investimento.»
Karch prese la busta imbottita e la scrollò finché l'asso di cuori cadde sulla scrivania. Si gettò la busta dietro le spalle e poi sollevò la carta da gioco.
«Asso di cuori. La carta dei soldi, Leo.»
Infilò la carta in una tasca della tuta. Poi raccolse l'altra busta e la osservò.
«Sono curioso. Cosa significa questo sette-sette-tre? È una specie di codice?»
«Sì, è un codice: un codice postale.»
Karch scosse la testa.
«Avrei dovuto capirlo. Di dove?»
«Chicago. È quello nuovo.»
«Sì, è vero. Già: tu lavori per Chicago.»
«No, ti sbagli. Non lavoro per nessuno.»
Karch annuì, ma il suo sguardo lasciava capire che non credeva affatto a Renfro. Scosse anche l'altra busta. Sulla scrivania caddero due passaporti. Ne raccolse uno e lo aprì alla pagina con la foto. Fissate su un lato con una graffetta c'erano una patente dell'Illinois e due carte di credito. Ma Karch era più interessato alla foto.
«Jane Davis» lesse ad alta voce. «Buffo, a me questa sembra Cassidy Black.»
Guardò Renfro per vederne la reazione, e la colse: un guizzo rapidissimo di sorpresa, forse addirittura di incredulità. Karch sorrise.
«Sì, so molto più di quanto credi.»
Raccolse il secondo passaporto, aspettandosi di trovarvi la foto di Renfro. Invece c'era la foto di una bambina. Il nome sotto la foto era: Jodie Davis.
«Forse non so ancora tutto. Cosa c'entra la bambina?»
Renfro non rispose.
«Andiamo, Leo, collaboriamo. Tu e io non possiamo avere segreti.»
«Fottiti. Fai quello che devi fare, e fottiti.»
Karch si appoggiò allo schienale della poltroncina e osservò Renfro come per soppesarlo.
«Voi tipi del Sindacato credete di essere... intoccabili.»
«Non sono del Sindacato, e tu fottiti comunque.»
Karch annuì, come divertito dalle proteste di Renfro.
«Lascia che ti racconti una storia sul Sindacato. Molto tempo fa, a Las Vegas, viveva un certo illusionista. Lavorava nel giro da parecchio tempo, era stato in tutti i casino, ma non aveva mai avuto molto successo. Era sempre e solo un numero di apertura, mai la stella dello spettacolo. E inoltre doveva crescere un figlio completamente da solo. A ogni modo, un bel giorno riceve un ingaggio per la Clown Room del Circus. Robetta da poco. Un numero da fare ai tavoli per pochi spiccioli... mance per lo più. E così, una sera si mette a fare il giochetto delle tre carte a un tavolo dove siedono questi tre tipi che continuano a chiedergli di rifarlo. Sai, gli dicono: "Fallo ancora, stavolta becco la carta". Solo che non la beccavano mai. Non indovinavano mai dov'era l'asso. Va avanti così per un pezzo, sino a che uno di loro incomincia a incazzarsi, convinto che il mago lo volesse prendere per il culo o roba del genere. Ma saltiamo alla fine della serata. L'illusionista timbra il cartellino ed è nel garage sul retro, che cammina verso la sua macchina. E indovina chi trova ad aspettarlo? Quei tre tizi del bar.»
Karch fece una pausa, ma non ad effetto. Piuttosto, perché a quel punto la storia diventava difficile anche per lui. Ogni volta che la ricordava o la raccontava, la rabbia sembrava ribollirgli in gola come acido.
«Uno di loro, il capo dei tre tizi, ha un martello. Non dicono una parola. Agguantano semplicemente il nostro mago e lo rovesciano sul cofano della sua macchina. Uno di loro gli toglie la cravatta per imbavagliarlo. Poi il tipo col martello gli frantuma tutte le nocche delle mani, una dopo l'altra. A un certo punto il nostro mago sviene, e quando hanno finito, lo abbandonano là disteso sul cemento, accanto alla macchina. Da allora non ha mai più lavorato. Non riusciva nemmeno a stringere una moneta nel palmo della mano. Tutte le volte che ci provava, la moneta gli cadeva per terra. Io me ne stavo seduto in camera mia e lo sentivo che provava qualche numero nell'altra stanza. E continuavo a sentire cadere quella moneta...
In seguito si è messo a fare il tassista per campare. Alla fine lo ha ucciso un cancro, anche se forse era già morto da parecchio tempo.»
Karch fissò Renfro.
«Tu sai chi era il tipo del martello?» chiese Karch.
Renfro scosse la testa.
«Era Joey Marks. L'uomo del Sindacato a Las Vegas.»
«Joey Marks è morto» disse Renfro. «E te l'ho già detto, io non lavoro per il Sindacato né per nessun altro.»
Karch si alzò e fece il giro della scrivania.
«Sono venuto per i soldi» disse in tono pacato. «Li hai rubati alla gente sbagliata e sono venuto a raddrizzare le cose. Me ne frego se lavori o no per Chicago. Non me ne vado di qui senza i soldi.»
«Quali soldi? Io vendo passaporti. Investo in champagne. Non rubo soldi alla gente.»
«Stammi bene a sentire, Leo. Martin è morto. E anche Jersey Paltz. Non vuoi finire come loro, vero? Quindi: dove sono i soldi? Dov'è Cassie Black?»
Renfro si voltò per fronteggiare Karch, mettendosi con la schiena verso la porta scorrevole. Dietro di lui la piscina brillava luminosa nell'oscurità. Abbassò il mento come se stesse guardando dentro di sé per prendere una decisione. Poi annuì leggermente e tornò a guardare in faccia Karch.
«Fottiti.»
Karch sospirò.
«No, Leo, stavolta ti fotti tu.»
Abbassò la canna della pistola e sparò con calma. La pallottola spappolò il ginocchio sinistro di Renfro. Trapassò osso e tessuti, colpì il pavimento piastrellato dietro di lui e rimbalzò contro la porta scorrevole. La vetrata si schiantò in grossi pezzi frastagliati che caddero fragorosamente sul pavimento frantumandosi. Renfro si abbatté sul pavimento stringendosi il ginocchio con entrambe le mani. Il suo viso divenne una maschera di dolore.
Il baccano provocato dai vetri fu superiore alle previsioni di Karch. La porta era andata completamente distrutta, lasciando sulla parte inferiore del telaio un solo largo frammento di vetro. Karch ne dedusse che la casa era stata costruita prima che i vetri di sicurezza diventassero obbligatori. Guardò fuori, nel giardino, e sperò che il rumore della freeway avesse coperto il fracasso.
Renfro iniziò a gemere e ansimare. Rotolandosi sui vetri, si tagliò alle braccia e alla schiena. Il pavimento cominciò a diventare scivoloso per il sangue. Karch gli si accostò e si chinò.
«Dammi i soldi, Leo, e ti prometto una fine rapida e indolore.»
Aspettò ma non ebbe risposta. Il viso di Renfro era scarlatto. Le labbra erano tirate all'indietro e rivelavano i denti digrignati.
«Leo, ascoltami. So che il dolore è forte, ma devi ascoltarmi. Se non mi dai i soldi resteremo qui tutta la notte. Credi che adesso ti faccia male? Non puoi immaginare quello che...»
«Fottiti! Non li ho i soldi.»
Karch annuì.
«Almeno stiamo facendo progressi, non trovi? Abbiamo superato la fase di "Quali soldi?". Se non li hai tu, allora dove sono?»
«Li ho già consegnati a quelli di Chicago.»
La risposta arrivò troppo veloce per Karch. Osservò da vicino il viso di Renfro e decise che mentiva.
«Non ti credo, Leo. Dov'è la ragazza? Cassie Black, dov'è?»
Renfro non rispose. Karch indietreggiò di un passo e con calma gli piantò una pallottola nell'altro ginocchio.
Renfro lanciò un urlo acuto, seguito da un diluvio di insulti che si dissolsero in gemiti quasi deliranti. Si girò sul petto, i gomiti stretti sotto di sé e il viso fra le mani. Le gambe ora stavano allungate inermi sul pavimento, con due pozze gemelle di sangue intorno alle ginocchia. Karch tornò a guardare fuori dalla porta, cercando luci o altri indizi che mostrassero di avere allarmato i vicini di casa. Sentì soltanto il rumore della freeway. Sperò che gli bastasse come copertura acustica.
«Va bene, va bene» biascicò Leo. «Te lo dico. Ti faccio vedere.»
«Okay, Leo, così va bene. Finalmente collaboriamo.»
Renfro sollevò il viso e si puntellò sui gomiti. Cominciò a strisciare in avanti, verso la cornice della porta senza più vetro, trascinandosi dietro le gambe come due pesi morti. Sul pavimento, una scia di sangue.
«Va bene, te lo dico» singhiozzò fra il tormento e le lacrime. «Ora ti faccio vedere.»
«Allora parla, Leo» disse Karch. «Dove stai andando? Non arriverai da nessuna parte. Non puoi camminare, e nemmeno metterti a gridare là fuori. Dimmi soltanto dove sono.»
Renfro si avvicinò di un altro doloroso mezzo metro alla porta. Quando parlò, la sua voce era rotta. I denti stretti digrignavano.
«Io lo sapevo... è stata quella luna del cazzo... la luna nera...»
«Di cosa parli? Dimmi dove sono i soldi.»
Karch temette di avere esagerato: Renfro forse cominciava a delirare per il dolore e l'emorragia.
«Luna nera...» ripeté Renfro. «È stato il... vuoto di luna.»
Karch fece un passo verso di lui.
«Vuoto di luna?» disse. «Cosa significa?»
Renfro smise di trascinarsi. Ruotò la testa e guardò in su, verso Karch. Il dolore aveva abbandonato il suo viso: adesso sembrava quasi rilassato.
«Significa... che può succedere qualunque cosa, pezzo di merda.»
La sua voce era tornata stranamente salda. Di colpo si appoggiò sulle mani. Si sollevò il più possibile e si lanciò in avanti verso il telaio della porta scorrevole. Il suo collo piombò sopra il pezzo di vetro ancora incastrato nel telaio.
Karch si rese conto troppo tardi di quale fosse la sua intenzione.
«No, porca puttana!»
Si chinò e sollevò Renfro per il colletto strappandolo dal pezzo di vetro. Lo lasciò ricadere sul pavimento e poi lo afferrò a una spalla per girarlo.
Troppo tardi. Il collo di Renfro era solcato da una ferita larga e profonda. Il sangue sgorgava formando bollicine dal lato sinistro, dove la carotide era stata recisa.
Gli occhi di Renfro fissavano lucidi Karch. Sul suo viso il sorriso si andava rigando di sangue. Lentamente riuscì a sollevare una mano, con cui si cinse il collo sanguinante. La sua voce fu un sussurro gracchiante.
«Fottiti... Hai perso.»
Leo abbassò la mano, quasi volesse lasciar sgorgare liberamente il sangue dalla carotide. Fissò Karch con una sorta di sorriso superiore, sereno.
Karch cadde sulle ginocchia piegandosi su di lui.
«Credi di avermi fregato? Eh? Eh? Credi di avermi fottuto?»
Leo gli rispose solo con quel suo sorriso distaccato. Karch capì che gli stava ripetendo «Fottiti!»,alzò la pistola e premette la canna dentro la bocca insanguinata di Renfro.
«Non mi hai vinto!»
Si tirò un po' indietro e voltò la testa. Poi premette il grilletto. Lo sparo spappolò la nuca di Renfro. Ucciso all'istante.
Karch rialzò la pistola e osservò il viso del morto. Aveva gli occhi aperti, e in qualche modo conservava ancora quel suo strano sorriso.
Karch si appoggiò all'indietro sui talloni e si guardò intorno. Vide una goccia di sangue sulla parte bianca di una delle sue scarpe bicolore Lite Tread. La pulì con un pollice, che poi asciugò sulla camicia di Leo.
Si rialzò e ispezionò l'ufficio. Emise un profondo sospiro. Sapeva di avere davanti a sé una lunga notte di ricerche. Doveva trovare i soldi. Doveva trovare Cassie Black.
31
Il venerdì mattina Cassie Black arrivò all'autosalone alle dieci. Andò subito da Ray Morales per sentire come andavano le cose. Si era occupato lui delle sue chiamate durante l'assenza degli ultimi giorni. Ray le disse che era tutto tranquillo ma che aspettava un possibile compratore alle tre: doveva provare una Carrera nuova. Il cliente aveva appena stipulato con la Warner Brothers un contratto a sei zeri per una sceneggiatura. Ray lo aveva pescato nelle pagine dell'Hollywood Reporter e si aspettava una vendita facile. Cassie lo ringraziò per aver pensato a lei per quel cliente e si incamminò verso il suo ufficio. Ma lui la fermò.
«Tutto a posto, ragazza?» le chiese.
«Certo, perché?»
«Non lo so. Hai l'aria di aver dormito poco di recente.»
Cassie sollevò la mano destra e la strinse intorno al gomito sinistro che le doleva ancora per la scarica provocata dalla valigetta. «Lo so» rispose. «Certi problemi mi tengono sveglia.»
«Quali problemi?»
«Non lo so. Problemi in generale. Sono nel mio ufficio se hai bisogno di me.»
Lo lasciò per ritirarsi nel proprio minuscolo santuario. Mollò lo zainetto ai piedi della scrivania e si sedette. Appoggiò i gomiti sul ripiano e si passò le mani fra i capelli. Avrebbe voluto urlare Non ce la faccio più! Ma si sforzò di mettere da parte le ansie ricordando a se stessa che in un modo o nell'altro la sua vita sarebbe cambiata. Molto presto.
Sollevò il telefono per controllare la segreteria telefonica. Martedì aveva lasciato un messaggio dicendo che sarebbe rimasta assente dal lavoro per alcuni giorni e invitando a chiamare Ray Morales. C'erano comunque quattro messaggi. Uno era di un'officina: l'avvertivano che la serie di cerchioni cromati per la Speedster del '58 da poco venduta erano finalmente pronti. La seconda chiamata era di uno dei "miracolati" di Ray - un produttore della Fox - passato da loro la settimana prima. Non chiamava per l'auto che aveva provato. Chiamava solo per dirle che aveva apprezzato il suo stile e per sapere se era interessata ad accompagnarlo alla prima del film di un amico pochi giorni dopo. Cassie non perse neppure tempo ad annotare il numero di cellulare del tizio.
«Se ti è piaciuto il mio stile perché non hai comprato la macchina?» mormorò nella cornetta.
Il terzo messaggio era di Leo. Nella sua voce c'era un'agitazione che non aveva mai sentito prima. Il messaggio era stato registrato a mezzanotte e dieci. Cassie lo ascoltò tre volte.
«Ehi, sono io. Cos'è successo al tuo cellulare? Non sono riuscito a chiamarti. Comunque, sono appena tornato dall'ufficio postale. Ho quelle cose che volevi, ma c'è qualcos'altro... qualcosa di storto. Qualcuno deve aver scoperto l'indirizzo della casella e mi ha spedito una cosa. Un asso di cuori del Flamingo. Non so cosa significhi, ma è chiaro che qualcosa significa. Chiamami... appena ricevi questo messaggio. Usa ogni precauzione possibile e tieni bassa la testa. Oh... cancella questa roba, mi raccomando.»
Cassie premette il pulsante del numero tre sulla tastiera telefonica cancellando il messaggio di Leo prima ancora di passare al quarto. L'ultima chiamata era giunta alle sette e trenta di quella stessa mattina, ma avevano riattaccato quasi subito. Non c'erano rumori di fondo, solo pochi istanti in cui si sentiva qualcuno che respirava. Poi più nulla. Poteva trattarsi di Leo?
Posò la cornetta, si chinò verso il pavimento e si tirò in grembo lo zainetto. Ci frugò dentro fino a trovare il cellulare. Era spento. Ricordò che era stata lei a spegnerlo, la sera prima, dopo la telefonata di Leo, perché aveva deciso di non voler essere richiamata.
Accese il cellulare e lo appoggiò sulla scrivania. Poi continuò a frugare nella borsa finché trovò la scatola che conteneva il mazzo di carte acquistato nel negozio di souvenir del Flamingo. Lo aprì velocemente, girò il mazzo sul versante delle figure e cominciò a far passare le carte cercando l'asso di cuori. Più si avvicinava alla fine del mazzo, più cresceva il senso di angoscia. Quando arrivò all'ultima carta senza aver visto l'asso di cuori, lanciò una sonora imprecazione e scagliò il mazzo lontano. Le carte andarono a colpire il poster di Tahiti ed esplosero in tutte le direzioni spargendosi sulla scrivania e sul pavimento.
«Dannazione!»
Affondò il viso fra le mani cercando di riflettere sul da farsi. Poi sollevò il telefono per chiamare Leo, ma ci ripensò. Usa ogni precauzione possibile, le diceva il messaggio. Pensò di servirsi del cellulare, ma liquidò anche questa idea. Aprì il cassetto della scrivania e prese una manciata di monete da un piccolo vassoio per penne e matite, quindi si alzò.
Aprì la porta e quasi sbatté contro Ray Morales, evidentemente attirato dal trambusto.
«Scusami» disse lei, cercando di scansarlo.
Ray guardò oltre le sue spalle nell'ufficio, dove vide carte da gioco sparse ovunque.
«Ehi, stavi facendo un solitario qui dentro?»
«Due solitari.»
«Cosa?»
«Torno fra pochi minuti, Ray. Devo fare quattro passi.»
Lui la guardò in silenzio attraversare l'autosalone e uscire dall'ampia porta a vetri.
Cassie camminò per un isolato, fino al Cinerama Dome, dove sapeva di trovare un telefono pubblico. Compose a memoria il numero del cellulare di Leo e lo lasciò squillare a lungo prima di riattaccare. Ormai pronta a dubitare di tutto, rifece il numero per timore di averlo sbagliato. Stavolta lasciò che il telefono squillasse dodici volte prima di rinunciare. L'angoscia che aveva sentito crescere dentro mentre controllava le carte da gioco salì vertiginosamente, sfiorando il livello del panico.
Cercò di calmarsi immaginando qualche motivo plausibile perché Leo non rispondesse. Leo e il suo cellulare erano come due gemelli siamesi. Se il telefono fosse stato spento, lei sapeva che la chiamata sarebbe stata inoltrata alla segreteria. Non ci sarebbero stati tutti quegli squilli a vuoto. Quindi il telefono era acceso. Ma nessuno rispondeva. Qual era dunque il problema?
La piscina, ricordò a un tratto. Ogni mattina Leo faceva le sue solite vasche. Doveva aver posato il cellulare sul tavolo accanto alla piscina, ma se stava nuotando forse non riusciva a sentirlo, sia per il rumore dell'acqua smossa sia per il frastuono di fondo della vicina freeway.
Questa spiegazione la calmò un poco. Chiamò un'ultima volta il numero di Leo. Di nuovo nessuna risposta. Riagganciò e decise che doveva pur tornare al salone. Avrebbe cercato di richiamarlo dopo mezz'ora. Ricordò quello che lui stesso le aveva detto una volta: aveva l'abitudine di fare ogni giorno varie miglia a nuoto. Cassie non aveva idea di quanto tempo occorresse, ma calcolò che mezz'ora potesse bastare.
Cinque minuti dopo rientrava nell'autosalone. Vide Ray in compagnia di un uomo con un cappello di feltro in contemplazione di una Carrera argento con spoiler carenato. Ray la vide e con una mano le fece segno di avvicinarsi.
«Cassie, ti presento il signor Lankford. Vorrebbe comprare un'auto.»
Il cliente si girò e sorrise con aria imbarazzata.
«Be', vorrei dare un'occhiata a un'auto. Cioè... provarla. Poi vediamo.»
Allungò la mano.
«Terrill Lankford.»
Lei gliela strinse. La sua stretta era decisa, la mano asciutta come polvere.
«Cassie Black, molto lieta.»
Guardò Ray cercando di fargli capire che non voleva occuparsene lei. La sua mente era lontana mille miglia dalla vendita di auto sportive.
«Ray, non è ancora arrivato Billy? O Aaron? Forse uno di loro sarebbe...»
«Meehan è fuori per un giro di prova e Curtiss arriva solo a mezzogiorno. Ho proprio bisogno di te per mostrare un'auto al signor Lankford.»
Il tono di Ray lasciava chiaramente capire che era piuttosto irritato dal suo comportamento eccentrico e che non erano ammesse ulteriori discussioni. Lei rivolse la sua attenzione a Lankford. Era un tipo dall'aria perbene e abbigliato con una certa eleganza, con vestiti un po' antiquati ma che si intonavano al cappello. A giudicare dal suo colorito pallido immaginò che avrebbe trovato più interessante un coupé. Non c'erano Boxster coupé, il che avrebbe sospinto il cliente verso le più dispendiose Carrera.
«Che modello le interessa?»
Lankford sorrise mostrando due file di denti perfetti. Cassie notò che aveva gli occhi color del cemento, una tonalità insolita con capelli così neri.
«Una Carrera nuova, credo.»
«Bene, le preparo una macchina. Se vuole fornire la patente e la tessera dell'assicurazione a Ray, lui farà le fotocopie mentre io penso all'auto.»
La bocca di Lankford si aprì ma senza dire nulla.
«Lei ha un documento valido per l'assicurazione, vero?» chiese Cassie.
«Certo, certo.»
«Okay, allora lasciamo che di queste pratiche si occupi Ray. Io vado a prendere la macchina. Coupé o cabrio?»
«Scusi?»
«Coperta o cabriolet... decappottabile?»
«Oh... Be', visto che è una così bella giornata, perché non facciamo a meno del tettuccio?»
«Mi sembra una buona idea. Ne abbiamo una in garage ed è anche disponibile. Color ghiaccio. Che gliene pare?»
«Grandiosa.»
«Bene, quando ha finito con Ray, esca di là. Ci troviamo all'uscita del garage.»
Gli indicò le porte a vetri sul lato opposto del salone.
«Okay, ci vediamo là» disse Lankford.
Mentre Ray accompagnava il cliente nel locale dove c'era la fotocopiatrice, Cassie andò nell'ufficio di Ray a prendere le chiavi della cabrio dal tabellone. Poi tornò nel proprio ufficio e prese il portafoglio dallo zainetto. Si guardò intorno e vide le carte da gioco sparse dappertutto. Se Lankford avesse deciso di concludere l'acquisto, era meglio farlo aspettare nell'ufficio di Ray mentre lei dava una ripulita. Adesso non aveva tempo di rimettere a posto.
Quando stava per lasciare l'ufficio, si ricordò di una cosa. Recuperò il cellulare dalla scrivania e lo fissò alla cintura. Nel caso Leo chiamasse, pensò.
Andò nel garage e raggiunse l'auto della prova. Salì al posto di guida, infilò il portafoglio in uno scomparto per CD sul cruscotto e avviò il motore. Abbassò i finestrini e il tettuccio, controllò il livello del carburante. C'era ancora un quarto di serbatoio. Poi guidò l'auto fino all'ingresso del salone, giungendovi proprio mentre Lankford ne usciva.
«Lasci guidare me finché non saremo un po' fuori» gridò lei per superare il rombo del motore che stava scaldando con rapidi colpi sull'acceleratore. «Poi passerà lei al volante.»
Lankford sorrise, e salendo accanto a lei le fece un segno di okay. Cassie uscì sul Sunset e poi piegò a nord sulla Vine. All'Hollywood Boulevard prese a sinistra e scese fino al Cahuenga Pass, che imboccò in direzione nord verso le colline e il Mulholland Drive.
All'inizio viaggiarono in silenzio. Cassie preferiva permettere ai clienti di ascoltare l'auto, di sentire la sua potenza nelle curve e di innamorarsene prima ancora che si parlasse delle caratteristiche tecniche. Preferiva aspettare che il cliente si mettesse al volante: a quel punto era più facile vendere il prodotto. E poi, in quel momento i suoi pensieri erano lontani anni luce dal signor Lankford e dal suo interesse per una macchina da 75.000 dollari. Cassie continuava a pensare alla chiamata di Leo e all'ansia che aveva percepito nella voce registrata in segreteria.
La Carrera si arrampicò agile lungo le ripide curve del Mulholland Drive fino alla cresta delle Santa Monica Mountains. Giunta alla piazzola panoramica al di sopra di Hollywood, spense il motore e scese.
«Tocca a lei» disse. Erano le sue prime parole da quando erano partiti.
Cassie si avvicinò alla balaustra sul ciglio e guardò il grande catino dell'Hollywood Bowl in basso. Dallo stadio i suoi occhi passarono in rassegna la distesa urbana spostandosi verso lo skyline del centro. Lo smog era fitto, una patina fra il rosa e l'arancio. Ma il panorama non sembrava poi tanto male.
«Bella vista» disse Lankford dietro di lei.
«A volte.»
Rimase a guardarlo mentre si metteva al posto di guida. Poi fece il giro dell'auto e montò anche lei.
«Le consiglio di restare sul Mulholland, così vedrà come l'auto regge questo genere di strada. Possiamo prendere il Laurel Canyon, giù, fino alla 101, e poi risalire verso Hollywood. Sulla freeway potrà lanciarla un po', vedrà che bomba.»
«D'accordo, buona idea.»
Lui trovò velocemente l'accensione sul lato sinistro e mise in moto. Uscì in retromarcia dalla piazzola, poi inserì la prima e si infilò sul Mulholland. Teneva sempre una mano sulla leva del cambio. Cassie capì subito che il tipo ci sapeva fare.
«Ho l'impressione che lei abbia già guidato delle macchine così, ma le farò ugualmente il solito discorsetto.»
«Va bene.»
Cominciò a elencare le caratteristiche dell'auto, partendo dal motore raffreddato ad acqua e dalla trasmissione per passare poi alle sospensioni e ai freni. Quindi espose i pregi dell'abitacolo, i dettagli delle rifiniture, della strumentazione...
«Qui abbiamo il controllo automatico di velocità, il controllo trazione e il computer di bordo, tutto in dotazione standard. Abbiamo il lettore CD, i finestrini e il tettuccio automatico e i doppi airbag. E qui sotto...»
Indicò il bordo anteriore del suo sedile, allungandosi una mano tra le gambe divaricate. Lankford abbassò lo sguardo, ma subito riportò gli occhi sulla strada.
«...c'è il comando di esclusione dell'airbag... nel caso che stia viaggiando con un bambino piccolo. Lei ha figli, signor Lankford?»
«Mi chiami Terrill. No, non ho figli. E lei?»
Per un attimo Cassie non rispose.
«Non proprio.»
Lankford sorrise.
«Non proprio? Pensavo che per una donna la risposta fosse un sì o un no.»
Cassie ignorò il commento.
«Cosa ne pensa della macchina... Terrill?»
«Molto fluida. Molto dolce.»
«Infatti. Ma... lei cosa fa nella vita?»
Lui le lanciò un'occhiata. Il vento minacciava di strappargli il cappello. Sollevò una mano e se lo calcò sulla fronte.
«Immagino di poter essere definito una specie di mediatore, uno che risolve problemi»disse. «Sono un consulente commerciale. Ho una società. Mi occupo di molte cose. In effetti sono come un prestigiatore. Faccio sparire i problemi degli altri. Perché me lo chiede?»
«Semplice curiosità. Queste auto costano parecchio. Lei dev'essere molto bravo nel suo campo.»
«Oh, sì. Lo sono. E il prezzo non è un problema. Pago in contanti. Per la verità, Cassie, prevedo di incassare presto una forte somma. Molto presto, anzi.»
Cassie guardò nella sua direzione e avvertì un improvviso brivido di paura. Fu più istintivo che intuitivo. Lankford premette un po' il pedale dell'acceleratore e la Carrera cominciò ad affrontare più velocemente le curve serpeggianti. Lui la guardò di nuovo.
«Cassie. È un diminutivo di cosa? Cassandra?»
«Cassidy.»
«Come Butch Cassidy?»
«Come Neal Cassidy. Come mio padre, che viaggiava di continuo. O almeno così mi hanno detto.»
Lankford aggrottò la fronte e premette ancora più a fondo il pedale.
«È un vero peccato. Mio padre e io, invece, eravamo sempre insieme, molto uniti.»
«Vuole rallentare, signor Lankford? Vorrei tornare al salone tutta intera, se non le spiace.»
Sulle prime Lankford non rispose, né con la voce né con il piede sul pedale. L'auto affrontò a velocità sostenuta un'altra curva, con le gomme che protestavano per restare attaccate all'asfalto.
«Le ho detto di...»
«Ho capito» la interruppe Lankford. «Lei vuole tornare indietro viva.»
Qualcosa nel tono dell'uomo le fece capire che non intendeva riferirsi al rischio di un incidente stradale. Cassie lo guardò di nuovo e si spostò sul sedile premendo il corpo contro la portiera.
«Scusi?»
«Ho detto che vuoi essere sicura di tornare indietro viva... Cassidy.»
«Okay, accosti l'auto. Non capisco cosa...»
Lankford pigiò il piede sul freno e ruotò di scatto il volante verso sinistra. La Porsche sbandò e fece un testacoda di 180 gradi prima di fermarsi. Lui la guardò e sorrise, poi cambiò marcia e spinse di nuovo sull'acceleratore. L'auto schizzò in avanti e lui riprese ad accelerare fra le curve, percorrendo a ritroso la strada appena fatta.
«Cosa diavolo sta facendo?» gridò Cassie. «Fermi la macchina! Si fermi subito!»
Cassie allungò la mano destra per aggrapparsi alla maniglia sul cruscotto. La sua mente si muoveva veloce come la macchina cercando di escogitare un piano, una via di fuga...
«In realtà, Lankford non è il mio vero nome» le disse il guidatore. «L'ho trovato in un libro sopra uno scaffale da Leo Renfro, questa notte. Il libro si intitolava Mirate al cielo. Gli ho dato un'occhiata. Credevo che parlasse del mio genere di lavoro, ma mi sbagliavo. E poi, diavolo, quando il tuo capo mi si è avvicinato nel salone e ha chiesto come mi chiamavo, è stato il primo nome che mi è venuto in mente. In realtà mi chiamo Karch. Jack Karch. E sono venuto per i soldi, Cassie Black.»
Tra le nebbie del terrore che la stava invadendo, Cassie continuava a pensare: Jack Karch, questo nome io lo conosco.
32
La Porsche sfrecciò come impazzita lungo la serpentina del Mulholland Drive. Ormai Jack Karch andava troppo forte e varie volte l'auto oltrepassò la riga gialla in mezzo alla strada a doppia corsia, sbandando pericolosamente. Il motore era paurosamente su di giri, ma Karch non voleva staccare la mano dal volante per passare a una marcia superiore. Cassie si teneva con entrambe le mani alla maniglia sul cruscotto, ma era ugualmente sbatacchiata con violenza sul sedile. Karch urlava per sovrapporsi al ruggito del motore.
«VOGLIO QUEI FOTTUTI SOLDI!» sbraitò.
Lei non rispose. Troppo occupata a guardare la strada che si snodava imbizzarrita dinanzi a loro, dava per scontato che avrebbero presto avuto un incidente.
«MARTIN È MORTO! PALTZ È MORTO! LEO È MORTO!»
Sentendo il nome di Leo, si girò verso di lui. Provò una fitta al cuore. Karch allentò la pressione sull'acceleratore. La macchina continuò a sfrecciare, ma il vento e il rombo del motore si attenuarono.
«Sono tutti morti» disse. «Ma non ho alcun desiderio o bisogno di fare del male anche a te, Cassie Black.»
Le sorrise e scosse la testa.
«Anzi, ti ammiro. Lavori bene, e questo io l'ammiro. Ma sono venuto per i soldi e adesso tu me li darai. Dammi i soldi e saremo pari.»
Cassie parlò lentamente, con tono duro.
«Non so di cosa sta parlando. E adesso, per favore, accosti la macchina.»
Un'espressione delusa attraversò il viso di Karch. Scosse la testa.
«Ho passato tutta la notte da Leo. Ho fatto a pezzi quel posto. Ho trovato un mucchio di champagne e la valigetta che cercavo. Ma non ho trovato quello che doveva esserci dentro la valigetta. E non ho trovato te fino allo spuntare del sole, quando mi sei comparsa davanti... Il cellulare di Leo: ho premuto il tasto di ripetizione dell'ultimo numero e ha risposto il centralino automatico dell'autosalone. Allora ho ascoltato tutti i servizi interni e, meraviglia delle meraviglie, ecco che sento il nome di Cassie Black. Ho fatto il tuo numero interno solo per sentire il suono della tua voce. "Qui è Cassie, dell'Hollywood Porsche. Sono assente per qualche giorno, ma potete richiamare e chiedere di Ray Morales. Lui si occuperà..." Blah, blah, blah, stronzate... Basta: VOGLIO I SOLDI!»
«HO DETTO DI ACCOSTARE LA MACCHINA!»
«Certo.»
Karch sterzò bruscamente verso destra e imboccarono una strada non asfaltata, che si addentrava in una macchia di pini. Cassie pensò che dovesse essere una strada taglia-fuoco o forse l'accesso a qualche cantiere. Ma qualunque cosa fosse, era chiaro che Karch voleva isolarsi, lontano da eventuali testimoni.
Percorsi circa duecento metri, Karch pigiò bruscamente sul freno e la Porsche si fermò sbandando sulla ghiaia. Cassie fu sospinta in avanti, il corpo stretto contro la cintura di sicurezza, e poi subì un contraccolpo all'indietro. Non si era ancora ripresa dalla brusca frenata, che già Karch si era voltato e le premeva sulla guancia la lunga canna scura di una pistola. Poi, con l'altra mano la afferrò alla mascella.
«Ora stammi a sentire... Mi ascolti?»
La stringeva impedendole di parlare. Lei non poté dunque che annuire con un cenno della testa.
«Bene. Devi soltanto sapere che la gente per cui in questo momento lavoro è interessata solo a una cosa: i soldi, nient'altro. Quindi non comportarti come i tuoi amichetti Leo o Jersey. Ti faresti solo ammazzare.»
Cassie fissò in silenzio la lunga canna della pistola. Aveva un silenziatore.
«Non preoccuparti di questa» disse Karch. «Basta che parli.»
«Okay» disse finalmente lei. «Non farmi del male e ti dirò dove sono i soldi.»
«Farai molto di più, dolcezza. Mi porterai da loro.»
«Okay. Tutto quello che...»
La interruppe stringendole il collo.
«Hai una sola possibilità. Lo capisci?»
Cassie annuì. Karch allentò poco per volta la stretta al collo sino a ritirare la mano. Stava per appoggiarsi allo schienale del sedile quando di colpo schioccò le dita e si piegò di nuovo verso Cassie. Sollevò la mano verso il suo viso e lei si tirò indietro, ma la mano le superò il volto per accostarsi all'orecchio. Cassie era stupita.
«Prima che tu salissi ho guardato nel tuo ufficio all'autosalone. Carte da gioco dappertutto. Come se tu stessi cercando qualcosa. Era questo che cercavi?»
Muovendo sinuosamente la mano, sembrò estrarle qualcosa dall'orecchio o dai capelli. Poi spostò delicatamente la mano davanti al viso sorpreso di Cassie. Reggeva un asso di cuori. Le sorrise.
«Magia» disse Karch.
Fu allora che lei si ricordò. Magia... Il nome Karch... Ricordò gli articoli sui giornali che aveva letto nella cella di sicurezza. Jack Karch: era lui.
Karch colse qualcosa di strano sul suo viso.
«Non ti è piaciuto, eh? Be', ne conosco altri. Dopo che avremo sbrigato i nostri affari, ti mostrerò un autentico numero di sparizione.»
Si sistemò al volante, tenendo il braccio destro sempre teso con la pistola che premeva contro le costole di Cassie.
«E adesso collaboriamo, d'accordo? Metti tu la marcia.»
Lui premette il pedale della frizione e lei allungò un braccio inserendo la prima. Karch rimise in movimento la macchina. Fece un'inversione e cominciò a risalire la strada sterrata. Quando il motore salì di giri le disse di mettere la seconda e lei obbedì. Lui ricominciò a parlare come se stessero facendo una scampagnata domenicale.
«Sai una cosa? Devo proprio dirtelo: il modo in cui hai sbrigato questo lavoretto, io... be', tanto di cappello. Sai, credo che in altre circostanze... tu e io, avremmo potuto... non so, combinare qualcosa.»
Staccò la mano dal volante e indicò la leva del cambio.
«Vedi, lavoriamo bene insieme.»
Lei non rispose. Capì che era uno psicopatico, uno capace di parlare in tutta sincerità a una donna del più e del meno, tenendola sotto la minaccia della pistola. Cassie sapeva che doveva fare qualcosa, e presto. Era certa che l'avrebbe uccisa. Era lei la protagonista del numero di sparizione a cui aveva accennato in tono gioviale ma allusivo. A Cassie sfuggì un sorriso malinconico per l'ironia paradossale della situazione: quell'uomo, infatti, l'aveva già uccisa, più di sei anni prima.
«Cosa c'è di tanto divertente?»
Lei lo guardò. Il sorriso di Karch era invece forzato.
«Niente. Gli scherzi della vita. Quante coincidenze...»
«Stai parlando di fato, di sfortuna, di questo genere di cose?»
Lei mosse con indifferenza il braccio destro sino a posare la mano fra le gambe. Karch lo notò e le premette più forte la pistola nel fianco.
«Come il vuoto di luna?»
Lei si girò di scatto a guardarlo.
«Sì, stanotte Leo ha accennato qualcosa. Poi, dopo, mentre a casa sua mi guardavo intorno, ho leggiucchiato uno dei suoi libri. Lui ci credeva sul serio. Però alla fine non gli è servito a molto, non ti pare? Ma... da che parte andiamo?»
Stavano uscendo dalla macchia di pini, prossimi al Mulholland. Cassie si rese conto che quella era forse la sua occasione migliore. Tirò un profondo respiro e fece la sua mossa.
«Quando arrivi lassù devi...»
Cominciò ad alzare il braccio sinistro come per indicare la direzione, ma poi lo abbassò di scatto scostando la pistola. Afferrò il volante con la mano sinistra e contemporaneamente disattivò l'airbag del proprio sedile con la destra. Diede un furioso strattone al volante verso destra e l'auto sbandò sulla ghiaia e finì fuori strada andando a sbattere violentemente contro il tronco di un pino. Accadde tutto così in fretta che Karch non ebbe la prontezza di premere il grilletto.
All'impatto contro l'albero, l'airbag del conducente esplose dal volante, sbattendo Karch all'indietro contro il poggiatesta.
La cintura di sicurezza evitò a Cassie di andare a cozzare contro il parabrezza. Per un attimo rimase intontita. Ma doveva spicciarsi. Slacciò la cintura e tentò freneticamente di aprire la portiera. Niente da fare. Non ci provò una seconda volta. Si sollevò e balzò fuori dall'auto cominciando a correre a perdifiato fra gli alberi verso il fondovalle.
Karch rimase intontito per lunghi istanti, incapace di riprendersi. L'airbag lo aveva infatti colpito come un autentico diretto alla mascella. La minuscola carica esplosiva usata per espellerlo dal volante gli aveva striato il viso e il collo, e nell'urto la pistola gli era sfuggita di mano andando a finire su uno dei sedili posteriori. Quando l'airbag cominciò a sgonfiarsi, Karch si riscosse e allontanò con rabbia il sacco protettivo dal viso. Cercò di sollevarsi ma la cintura di sicurezza lo teneva inchiodato dov'era. La sganciò concitatamente e si rizzò sul sedile. Guardò in tutte le direzioni. Finalmente intravide la sagoma di Cassie, che si allontanava correndo in mezzo agli alberi.
Capì d'istinto che non l'avrebbe raggiunta. Lei aveva un buon vantaggio e probabilmente sapeva dove nascondersi. Giocava in casa.
«Cazzo!»
Cercò affannosamente la pistola: vide la Sig Sauer sul sedile posteriore. Si chinò a raccoglierla e poi si lasciò scivolare sul sedile. Girò la chiave cercando di rimettere in moto la macchina. Non successe nulla. Riprovò con insistenza ma sentì soltanto uno scatto metallico.
«Cazzo!»
Cercò di aprire la portiera ma era bloccata. Mentre la scavalcava notò il piccolo portafoglio nero che Cassie Black aveva infilato nello scomparto dei CD, sul cruscotto. Si chinò per prenderlo e lo aprì. In una bustina di plastica trasparente c'era una patente della California. Studiò la foto di Cassie Black e poi guardò l'indirizzo. Viveva sulla Selma, a Hollywood.
Karch tornò a scrutare il bosco. Ormai Cassie Black era sparita da un pezzo. Tuttavia, in piedi sul sedile della Porsche, sventolò in alto il portafoglio come se lei lo stesse osservando da un punto nascosto.
«Guarda cos'ho trovato!» gridò. «Non hai ancora vinto, dolcezza!»
Tolse il silenziatore dalla Sig e sparò un colpo in aria, giusto per farle sapere che lui le stava alle calcagna.
Mentre scendeva rapida ma cauta la collina, Cassie cominciò a sentire della musica e usò quella fonte sonora come un faro. Finalmente uscì dalla macchia ritrovandosi a ridosso di un parcheggio. Lo riconobbe: era quello dietro l'Hollywood Bowl. Ne percorse lo svincolo di accesso fino alla Highland e poi si incamminò lungo il Sunset.
Impiegò altri venti minuti per tornare all'autosalone. Mentre si avvicinava vide due auto bianconere della polizia ferme all'entrata del parcheggio. C'era anche un'auto senza contrassegni con un faro lampeggiante sul cruscotto, parcheggiata sul marciapiede proprio davanti all'ingresso. Di lato era ferma anche un'ambulanza, ma i portelli posteriori erano chiusi.
C'erano molte persone assiepate sul marciapiede, incluso quasi tutto il personale dell'officina e dell'ufficio vendite del salone. Cassie si avvicinò a un collega venditore, Billy Meehan, che guardava dentro il salone con un'espressione allibita in volto.
«Billy, cos'è successo?»
Lui si girò verso di lei e sgranò gli occhi.
«Oh, grazie al cielo! Credevo che fossi là dentro anche tu. Dov'eri?»
Cassie esitò, poi optò per una bugia che curiosamente era anche vera.
«Avevo deciso di fare quattro passi. Là dentro con chi?»
Meehan le posò le mani sulle spalle e chinò il viso come per comunicarle chissà quale brutta notizia. Ma le notizie erano brutte davvero.
«C'è stata una rapina. Qualcuno ha fatto stendere a terra Ray e Connie nell'ufficio di lei, e poi ha sparato a tutti e due.»
Cassie si portò le mani alla bocca soffocando un grido.
«Poi hanno rubato la cabrio argento. Credevamo che forse, ecco, ti avessero preso come ostaggio o qualcosa del genere. Sono proprio contento che tu stia bene.»
Cassie annuì senza chiedere altro. Il suo passato di detenuta era noto solo a Ray Morales, e si rese conto che se gli altri dipendenti lo avessero saputo, probabilmente l'avrebbero subito segnalata alla polizia. Karch aveva fatto affidamento anche su questo per giustificare quella strage?
Tutt'a un tratto si sentì senza forze. Doveva sedersi. Si aggrappò quasi a Meehan e scivolò sul ciglio del marciapiede. Si sforzò di capire che cosa fosse successo, e concluse che Karch aveva sparato a Ray e Connie perché al momento decisivo non aveva potuto esibire una patente falsa con il nome Lankford. Karch non voleva però perdere quell'occasione per incastrare la sua preda e sapeva di non dover lasciare dietro di sé un solo elemento con cui potessero risalire a lui...
«Cassie, ti senti bene?»
«Non riesco ancora a crederci... Sono morti?»
«Sì, tutti e due. Ho visto la scena là dentro prima che arrivasse la polizia. Non era un bello spettacolo.»
Cassie si piegò in avanti e vomitò nel rigagnolo a ridosso del marciapiede. Fu un conato improvviso e unico, che sembrò svuotarla completamente. Si ripulì la bocca con una mano.
«Cassie!» esclamò Meehan guardandola. «Vado a chiamare uno degli infermieri.»
«No, ti prego. Sto bene. È solo... povero Ray! Voleva soltanto essere d'aiuto.»
«Cosa vuoi dire?»
Si accorse di avere commesso un errore dando voce ai suoi pensieri.
«Voglio dire che era una brava persona. Anche Connie. Avrebbero consegnato i soldi o le chiavi senza fiatare. Perché li ha uccisi?»
«Chissà. E una cosa insensata. A proposito, tu hai notato qualcuno?»
«No, perché?»
«Hai detto che "li ha uccisi": hai visto un qualche tipo?»
«No, io ero uscita. L'ho detto così, perché immagino sia stato un qualche tipo... Scusa, ma non riesco a pensare lucidamente in questo momento.»
«Ti capisco. Io non riesco ancora a credere che sia successo davvero.»
Rimase seduta sul marciapiede con il viso fra le mani e un immenso senso di colpa che le gravava sulle spalle. Non faceva che pensare è colpa mia, è colpa mia, è colpa mia... Sino a che capì di doversi allontanare, e presto.
Trovò la forza di rialzarsi, ma si dovette aggrappare al braccio di Meehan per conservare l'equilibrio.
«Sei sicura di stare bene?» le chiese il collega.
«Sì, sì. Sto bene. Grazie, Billy.»
«Probabilmente dovresti dire alla polizia che sei qui e che non ti è successo nulla.
«Certo, lo farò. Ma per ora puoi informarli tu? Io adesso non ce la faccio a entrare là dentro.»
«Va bene, Cassie, vado io a dirglielo.»
Cassie aspettò che Meehan si allontanasse, poi si incamminò lungo il marciapiede fino alla stradina sul retro dell'autosalone. Oltrepassò la zona dell'assistenza clienti e raggiunse il parcheggio delle auto d'occasione. La Boxster argento che negli ultimi tempi Ray le aveva permesso di usare era ancora là. Cassie la parcheggiava sempre in quella zona espositiva, sperando che qualche cliente la notasse.
L'auto era aperta, ma la chiave era nello zainetto che lei aveva lasciato in ufficio. Aprì la portiera e sbloccò il cofano anteriore, che chiudeva il bagagliaio. Lo aprì e ne prese il manuale del proprietario, un'elegante pubblicazione rilegata in pelle. Poi richiuse il bagagliaio e salì in auto. Su uno dei fogli ripiegati del manuale c'era una chiave, che il proprietario dell'auto poteva conservare nel portafoglio come copia per i casi di emergenza. La tirò fuori, riuscì a mettere in moto l'auto, e dal parcheggio sgusciò nella stradina. Procedette lentamente per almeno due isolati, poi tagliò verso il Sunset, dove girò a destra allontanandosi in direzione della Freeway 101.
Presto le guance le si rigarono di lacrime. Quello che era successo al salone cambiava tutto. La morte di Leo era spaventosa e la feriva profondamente. Ma Leo era nel giro e dunque ne condivideva i rischi. Ray Morales e la povera Connie Leto, responsabile amministrativa del salone, erano invece del tutto innocenti. La loro fine rivelava sino a che punto Karch fosse disposto a spingersi pur di recuperare i soldi. Quella morte era la prova che non esistevano più limiti: né per Karch, né per il senso di colpa di Cassie...
33
Mentre il taxi passava davanti all'autosalone, Karch guardò con attenzione dal finestrino. Non lo interessava l'assembramento di mezzi della polizia e della televisione davanti alle vetrine. I suoi occhi passarono invece in rassegna le numerose persone accalcate in prossimità dell'ingresso. Sperava di scorgervi Cassie Black, pur temendo di essere arrivato troppo tardi.
Il suo cellulare non riusciva a comunicare lassù, fra le colline. Aveva dunque dovuto risalire a piedi fino al Mulholland Drive e poi scarpinare fino alla piazzola panoramica sopra Hollywood, dove ricordava di aver visto un telefono pubblico. Aveva impiegato quasi un'ora. Poi era rimasto ad aspettare per altri venti minuti l'arrivo del taxi.
In un pessimo inglese il tassista gli raccontò qualcosa su quanto era successo nell'autosalone, ma Karch non gli prestò attenzione.
Il taxi proseguì per qualche altro isolato, poi girò nella Wilcox. Karch lo fece fermare davanti a un negozio di souvenir di Hollywood. Pagò e scese.
Aspettò che il taxi ripartisse tornando indietro verso il Sunset, dopo di che attraversò la strada per raggiungere la Lincoln parcheggiata a lato del marciapiede. L'auto sfoggiava un paio di targhe nuove che aveva prelevato quella stessa mattina nel parcheggio dell'aeroporto di Los Angeles.
Karch salì e accese il motore. Ma prima di partire cercò la Selma sullo stradario. Era fortunato: distava meno di cinque minuti.
Non c'erano auto parcheggiate per strada davanti al bungalow che, sulla patente, era indicato come residenza di Cassie Black. Nessuna auto neppure sul vialetto di accesso. La casa era in fondo a una strada senza uscita, e Karch optò per un avvicinamento deciso. Si infilò nel vialetto per parcheggiarvi l'auto. Una tale effrazione alle proprie regole, in piena luce del giorno, non era il suo ideale operativo. Ma doveva entrare in casa per controllare se Cassie Black fosse già arrivata. Fermò in fondo al vialetto, suonò un paio di volte il clacson della Lincoln e attese. Dopo un po' spense il motore, scese e si avviò verso i gradini dell'ingresso facendo roteare intorno al dito la catenella del portachiavi. Quando raggiunse la porta si chinò impugnando i grimaldelli. Si mise rapidamente al lavoro sulla serratura, comportandosi come una persona che avesse qualche problema con le chiavi. Pareva che nessuno lo stesse osservando, ma recitò ugualmente una bella scenetta.
Forzò la serratura in circa quaranta secondi. Poi ruotò la maniglia ed entrò.
«Ehi, Cassie?» chiamò ad alta voce, a beneficio di eventuali vicini che lo avessero notato. «Su, andiamo, ti sto aspettando!»
Si richiuse la porta alle spalle, estrasse la pistola e inserì velocemente il silenziatore. Iniziò un rapido esame della casa, una stanza dopo l'altra.
Era vuota. Passò a un secondo e più lento controllo. L'abitazione, arredata in economia, sembrava in perfetto ordine. Si convinse che Cassie non vi era tornata. Sedette sul divano del soggiorno e rifletté su ciò che poteva significare. Lei aveva già con sé i soldi o doveva ancora recuperarli? Erano stati nascosti in casa di Leo Renfro, dove in qualche modo gli erano sfuggiti durante la perquisizione, sebbene vi avesse dedicato tutta la notte? Un'altra eventualità, ben peggiore, cominciò a fare capolino... E se Renfro gli aveva detto la verità, sostenendo di avere già consegnato il denaro ai suoi contatti di Chicago?
Karch sentì qualcosa di bitorzoluto proprio sotto il cuscino del divano su cui sedeva. Si alzò e sollevò il cuscino. Trovò una gruccia per abiti con sette lucchetti agganciati intorno alla sbarra. Lo strano oggetto gli rammentò l'abilità di Cassie Black. In quell'istante decise che, se avesse scoperto che lei era fuggita con il denaro, le avrebbe dato la caccia anche in capo al mondo. Non per Grimaldi e certo non per i boss senza volto che tiravano le fila da Miami. No: lui lo avrebbe fatto solo per se stesso.
Lasciò cadere la gruccia sul divano e iniziò la sua terza perquisizione. Decise di procedere con attenzione e pazienza ancora maggiori.
La camera da letto era il posto più ovvio da cui cominciare. Karch sapeva quanto alla gente piaccia dormire con le cose più care a portata di mano. La stanza, perfettamente imbiancata, conteneva mobili essenziali: un letto matrimoniale, due comodini, un cassettone e uno specchio. A una parete era attaccato con del nastro adesivo il poster di una spiaggia di Tahiti. Lo esaminò per qualche istante: era identico a quello che aveva visto nell'ufficio di Cassie Black quando era entrato a cercarla. All'autosalone, lui stava osservando il poster quando il direttore aveva infilato dentro la testa chiedendo se poteva essergli utile.
Karch si avvicinò per osservare da vicino il manifesto. Si chiese se avesse qualche significato particolare utile per la sua ricerca. La donna sulla spiaggia non somigliava minimamente a Cassidy Black. Alla fine decise che se ne sarebbe occupato in seguito, e si diresse verso il comodino più vicino aprendone il cassetto superiore.
Conteneva vari numeri di riviste di fai-da-te, Popular Mechanics, che sembravano acquistate in qualche mercatino dell'usato. Erano in pessime condizioni, vecchie di anni. Tuttavia sfogliò le pagine di ogni numero, nel caso racchiudessero qualche appunto o contenessero un indirizzo segreto. Non trovò nulla e lasciò ricadere l'ultima rivista nel cassetto richiudendolo con un calcio.
Il cassetto inferiore era praticamente vuoto. C'era solo un piccolo sacchetto aromatico con cedro e rosmarino. Sbatté con violenza anche quel cassetto e girò intorno al letto per controllare l'altro comodino.
Prima ancora di aprirlo ebbe la sensazione che sarebbe stato più fortunato. Sul secondo comodino c'era una lampada, e il cuscino accanto era schiacciato come se qualcuno ci avesse dormito. Cassie doveva dormire da quella parte.
Karch sedette sul letto e posò la pistola accanto a sé. Sollevò il cuscino con entrambe le mani e se lo avvicinò al viso. Poteva sentire il suo odore, il profumo dei suoi capelli. Non era molto bravo a identificare i profumi, ma gli sembrò di fiutare un aroma di foglie di tè, come quando se ne apre per la prima volta una scatola. Però non ne era certo, e posò il cuscino.
Aprì il primo cassetto e fece clamorosamente centro. Era pieno di oggetti personali. C'erano gioielli, fasce per capelli e album di fotografie. C'erano anche una macchina fotografica con un lungo obiettivo e una videocamera. Sopra tutto era posata una piccola foto incorniciata. Karch la sollevò: mostrava Cassidy Black seduta sulle gambe di un uomo che indossava una camicia hawaiana. Lei reggeva un bicchiere con una bevanda colorata e un ombrellino di carta appoggiato sul bordo. Karch quasi non la riconobbe: nella foto il suo viso era illuminato da un sorriso radioso.
Però non ebbe dubbi su chi fosse il tipo che la teneva in braccio. Il suo era un viso che Karch non avrebbe mai dimenticato. Era Max Freeling, l'uomo che in un istante aveva cambiato per sempre il corso della sua vita. Karch sapeva che ora non si sarebbe trovato lì se non fosse stato per Max Freeling e per il gesto che egli aveva compiuto al ventesimo piano del Cleo sei anni prima. Da allora, per quello che era successo in quella camera, Karch aveva dovuto piegarsi agli ordini di Grimaldi.
Sbatté con stizza la fotografia contro lo spigolo del comodino. Il vetro si ruppe, e sul cartoncino di rinforzo dietro la cornice Karch notò una breve scritta.
«Sollevai gli occhi, vidi il profilo di Tahiti e capii:
quello era il luogo che cercavo da tutta la vita.»
W. Somerset Maugham
Karch osservò di nuovo la foto incorniciata. Ora il vetro rotto disegnava come una ragnatela sul viso di Cassidy Black. Karch la gettò in un cestino accanto al comodino.
Prese dal cassetto uno spesso album fotografico rilegato in morbida pelle marrone. Aprendolo si aspettava di trovare altre foto di Max Freeling, e invece ebbe una sorpresa. L'album era pieno delle immagini di una bambina. Erano quasi tutte scattate a distanza. Lanciò un colpo d'occhio alla macchina con il teleobiettivo nel cassetto. Curioso: le foto inquadravano sempre lo stesso posto, il cortile di una scuola.
Sfogliò l'album e trovò un'immagine della bambina che giocava a basket. Verniciata sul muro di un edificio dietro l'area di gioco c'era la scritta WONDERLAND SCHOOL.
Chiuse l'album e ne tirò fuori un altro. Conteneva altre foto della bambina, ma non scattate a scuola. Mostravano la piccola in un giardino davanti a una casa. In alcune trascinava un carrettino o prendeva a calci una palla, in altre giocava su uno scivolo o rideva dondolandosi sull'altalena. In fondo all'album stava un gruppo di fotografie non ancora inserite negli appositi scomparti trasparenti, in cui si vedeva la bambina durante un viaggio a Disneyland. Una foto la mostrava abbracciata a Topolino.
Karch si frugò nella tasca della giacca ricordandosi del portafoglio di Cassie. Ne tirò fuori i due passaporti e aprì il primo alla pagina con la fototessera. Era la stessa bambina degli album. Jodie Davis, diceva il nome.
Karch si rimise in tasca i passaporti e lasciò cadere l'album sul pavimento. Era come in preda a una visione, una di quelle esperienze che chiamano a raccolta ricordi sepolti e nuove informazioni coagulandoli in una rivelazione.
Cominciò a elaborare un progetto che gli avrebbe consentito di prendere i soldi e Cassie Black al tempo stesso. Chiuse il primo cassetto e aprì il secondo. Questo era meno stipato. C'erano un asciugacapelli che non sembrava essere mai stato usato e alcune vecchie lettere di detenute del Carcere femminile di High Desert. Karch ne aprì una. Le solite lettere su-come-ti-vanno-le-cose, spedite da una ex compagna di cella di nome Letitia Granville. Karch gettò anche queste lettere nel cestino e sfilò da sotto l'asciugacapelli una busta gialla.
La girò dalla parte dell'indirizzo e vide che era indirizzata a Cassidy Black presso il Centro di detenzione di High Desert. Qualunque cosa ci fosse nella busta, lei l'aveva conservata dal tempo del carcere. L'intestazione prestampata del mittente diceva che la busta era stata spedita dalla Renaissance Investigations di Paradise Road, Las Vegas. Karch conosceva bene quell'agenzia investigativa. Di medie dimensioni, cinque o sei investigatori. Sganciavano anche loro delle belle mazzette agli agenti della polizia metropolitana per accaparrarsi i casi di persone scomparse. Aprì la busta e ne estrasse un riepilogo investigativo che aveva tutta l'aria di essere stato consultato parecchie volte. Stava cominciando a leggerlo, ma sobbalzò. Dalla porta alle sue spalle gli giunse un grido perentorio.
«NON-MUOVERE-UN-MUSCOLO-TESTA-DI-CAZZO!»
Karch lasciò cadere il rapporto e tenne le mani immobili dinanzi a sé. Cominciò a girare lentamente la testa. Ciò che vide lo colse ancora più di sorpresa. Appena dentro la soglia della camera da letto c'era un'enorme donna di colore. Se ne stava piantata a gambe larghe nella classica posa che viene insegnata nelle accademie di polizia. Piedi divaricati, peso equamente distribuito, entrambe le mani intorno al calcio della pistola, i gomiti leggermente piegati e puntati all'esterno. Al collo aveva una catenella con un distintivo. Non sembrava la classica donna poliziotto, ma la Beretta 9 mm puntata verso di lui liquidava ogni possibile discussione.
«Ci vada piano, signora» disse con voce calma. «Siamo dalla stessa parte.»
34
Dopo la tremenda scoperta di quanto avvenuto all'autosalone, Cassie Black si sentiva come sott'acqua, immersa in un mondo parallelo, ultraterreno, che non aveva alcun contatto con la vita normale. Nel suo intimo sapeva però che si trattava di una sana reazione istintiva, necessaria a farla agire automaticamente sebbene tutto sembrasse insensato.
Si trovava nel giardino della casa di Leo e fissava il sangue raggrumato che macchiava la grossa scheggia di vetro, ancora infissa nel telaio inferiore della porta scorrevole.
La sola vista di quel pezzo di vetro le confermò che Karch non le aveva mentito. Leo era davvero morto. Se fosse entrata in casa ne avrebbe trovato sicuramente il corpo. E sarebbe stata una di quelle immagini che non si cancellano più dalla memoria.
Chinò gli occhi verso la piscina e sull'aspiratore che se ne stava immobile sul fondo. Ma quasi subito la sua attenzione tornò alla porta, allo spuntone di vetro insanguinato. Sapeva di dover entrare. Alla fine fece un cenno di assenso a se stessa e si avvicinò alla porta. Vide immediatamente il corpo sul pavimento dell'ufficio. Sulla freeway passò un fuoristrada rombante che coprì il lungo grido straziato uscitole involontariamente dalla gola. Scavalcò il vetro ed entrò nella stanza.
Il corpo di Leo giaceva scomposto sulla schiena, poco oltre la porta. C'era sangue dappertutto. Malgrado l'atrocità della scena, l'attenzione di Cassie fu attratta dall'espressione del volto immobile di Leo, un'espressione di lieve, ma innegabile soddisfazione, una smorfia che sembrava un sorriso. Cassie gli si accucciò accanto e gli sfiorò la guancia fredda.
«Oh, Leo» disse. «Che cosa ho fatto...»
Le spuntarono le lacrime. Tentò di ricacciarle indietro chiudendo con forza gli occhi e stringendo le mani a pugno.
Quando riaprì gli occhi, raccolse le forze per esaminare il corpo e la stanza come avrebbe fatto un investigatore. Voleva capire meglio come si erano svolti i fatti. Se Karch era andato da lei per recuperare i soldi, ciò significava che Leo aveva tenuto duro, che non gli aveva rivelato il nascondiglio. Osservò le lunghe chiazze insanguinate sulle piastrelle del pavimento e ricostruì la scena. Probabilmente era stato lo stesso Leo a trascinarsi verso la porta, sino a conficcarsi il vetro nel collo. Lo aveva fatto per lei, per proteggerla.
«Oh, Leo...»
Chiuse di nuovo gli occhi e abbassò la testa sul petto del morto.
«Te lo dicevo che dovevamo scappare.»
Si raddrizzò sulle ginocchia con rinnovata determinazione e con una nuova decisione. Doveva riuscire a fuggire. Era una scelta anche egoista, certo, ma, se avesse fallito, la nobile morte di Leo sarebbe risultata inutile. Era stata questa la sua speranza finale, la sua ultima preghiera, la ragione di quel suo sorriso: proteggere la fuga di Cassie. E lei avrebbe realizzato l'ultima volontà dell'amico.
Si rialzò e si guardò intorno. L'ufficio era stato completamente messo a soqquadro da Karch. Scavalcò il cadavere avvicinandosi alla scrivania rovesciata. Sul pavimento tutt'intorno c'era un'enorme confusione. I libri, gli appunti e i taccuini di astrologia di Leo erano sparsi ovunque. Il contenuto dei cassetti della scrivania era stato anch'esso rovesciato sul pavimento. In mezzo a tale marasma vide due buste, entrambe indirizzate a Leo, con lo stesso bizzarro indirizzo del mittente: solo le cifre 773. Si chinò e le raccolse. Erano entrambe vuote. Una era stata spedita due giorni prima da Chicago. Allora capì: Karch aveva trovato i suoi due passaporti. Li aveva lui!
Cassie si alzò di scatto urtando con la testa gli I-Ching che penzolavano dal soffitto sopra la scrivania. Sollevò gli occhi a osservarli per un attimo, poi prese la poltroncina della scrivania e l'avvicinò. Vi salì sopra e staccò la fila di monete. Voleva qualcosa di Leo da portare con sé. Non come portafortuna, ma come ricordo.
Scendendo dalla poltroncina capì che sarebbe stato inutile setacciare il resto della casa. Karch aveva i passaporti, e lì dentro non c'era nient'altro che la interessasse. Si avvicinò al corpo di Leo e lo fissò di nuovo. Pensò alla canzone che aveva ascoltato tante volte sulla strada per Las Vegas. E sperò che anche a Leo fosse comparso un angelo nel momento finale.
«Addio, Leo.»
Evitò con cura i vetri sparsi sul pavimento e uscì nel giardinetto posteriore. Si avvicinò al bordo della piscina e abbassò lo sguardo verso l'aspiratore. Seguendo il percorso del tubo flessibile fino al raccordo sulla parete, fece il giro della piscina. Poi si inginocchiò e infilò un braccio nell'acqua. Afferrò il tubo flessibile tirandolo di sé. Era un lavoro pesante e per due volte rischiò di cadere in acqua, ma finalmente il bocchettone dell'aspiratore e la sacca dei rifiuti filtrati salirono in superficie. Con un ultimo sforzo riuscì a trascinare il tutto sul bordo di cemento della piscina.
Dell'acqua si riversò macchiando il cemento chiaro e inzuppando le ginocchia dei jeans neri. Cassie non se ne curò. Lottò brevemente per aprire la sacca dei rifiuti, ma poi vide la cerniera che la chiudeva su un lato. L'aprì rapidamente e l'allargò. Dentro c'era un altro contenitore, una sacco di robusta plastica bianca con l'apertura strettamente annodata. Cassie lo estrasse con cautela dalla sacca dell'aspiratore e si affaccendò attorno al nodo. Era troppo stretto, e le unghie corte non si adattavano a quel lavoro. Dalla tasca posteriore dei jeans prese il coltellino svizzero e lo tagliò di netto.
Cassie vi guardò dentro. Le mazzette delle banconote da cento dollari erano sempre là, ancora avvolte nella plastica e asciutte come il giorno in cui erano uscite dalla zecca.
Richiuse il sacco e guardò la vetrata infranta sull'altro lato della piscina. Da quella posizione vedeva le punte delle scarpe di Leo rivolte all'insù. Lo ringraziò silenziosamente. Era stato bravo a spiegarle che il migliore nascondiglio è quello che sta sotto gli occhi di tutti. Aveva avuto ragione a mettere i soldi nella sacca dei rifiuti della piscina.
Cassie chinò lo sguardo sull'acqua. Le sue manovre con l'aspiratore avevano creato un piccolo gorgo. Poco discosto, sulla superficie galleggiava un colibrì morto, con le minuscole ali spalancate come quelle di un angelo.
35
Karch si alzò lentamente eseguendo gli ordini che gli aveva impartito la corpulenta donna di colore.
«Tu chi diavolo sei?»
Lui annuì, sperando che il gesto venisse interpretato come un segno di totale disponibilità e collaborazione.
«Mi chiamo Jack Karch. Sono un investigatore privato. La mia licenza è nella tasca interna della giacca. Posso tirarla fuori e mostrargliela?»
«Magari dopo. Un investigatore privato? Cosa vuoi da Cassie Black? Intanto fai due passi indietro e appoggiati al muro.»
Lei avanzò lentamente nella stanza. Lui fece come ordinato e andò ad appoggiare le spalle alla parete. La vide lanciare un'occhiata alla Sig, ancora posata sul letto.
«Mi sto occupando di un caso. Un furto a Las Vegas. Un topo d'albergo ha derubato in camera un giocatore di una grossa vincita. E ora, se permette, lei chi è?»
La donna si era accostata al letto. Tenendo gli occhi e la Beretta puntati su Karch, si chinò in avanti e allungò l'altra mano verso la Sig.
«Agente Thelma Kibble, sorvegliante della libertà su parola.»
«Oh, già, Kibble. Avevo intenzione di contattarla oggi per chiederle appunto di Cassie Black.»
«Da quando in qua il Nevada permette ai suoi investigatori privati di andarsene in giro con pistole munite di silenziatore?»
Karch fece del suo meglio per apparire sorpreso.
«Oh, intende quella? Non è mia. L'ho trovata nel cassetto. È di Cassie Black. E le conviene stare attenta a come la maneggia. Credo che sarà un referto utile al processo.»
«Perché? Ha detto che si è trattato di un furto in un albergo.»
«Sì, ma hanno trovato il corpo del suo socio, un tipo di nome Jersey Paltz, nel deserto. Morto ammazzato.»
Thelma abbassò lo sguardo sulla pistola che reggeva nella mano sinistra. Karch, a circa un paio di metri da lei, pensò che era troppo rischioso tentare una mossa da quella distanza.
«Senta, signor Karch, vorrebbe aprire molto lentamente la giacca per farmi dare un'occhiata?»
«Certo.»
Karch aprì lentamente la giacca mostrando la fondina vuota sotto la spalla.
«Lo so cosa sta pensando» disse velocemente. «Se la fondina è vuota, allora la Sig è mia. Ma non è vero. Ho un permesso per portare un'arma nascosta. Ma è un permesso statale del Nevada, non valido in California. Se avessi un'arma in questa fondina infrangerei la legge. La mia pistola è chiusa a chiave nel bagagliaio dell'auto. Se vuole che usciamo gliela mostro.»
«Questo non mi preoccupa più di tanto. Piuttosto mi sto chiedendo perché qui c'è lei e non invece gli sbirri di Las Vegas. Se c'è stato un omicidio, perché le autorità non sono coinvolte? Perché non sono qui?»
«Be', certo che sono coinvolte. Ma come lei sa meglio di me, la polizia è rallentata dalla burocrazia. Io sono stato assunto dall'Hotel-Casino Cleopatra per indagare sul furto avvenuto in una loro camera. Ho assistenti e un conto spese. Posso muovermi più rapidamente. Presto comunque arriverà anche la polizia e si metterà in contatto con voi. Anzi, io lavoro a stretto contatto con gli agenti di Las Vegas. Se vuole, posso darle il nome e il numero di un detective che può garantire per me.»
Se abboccava, le avrebbe dato il numero di Iverson, che di sicuro gli avrebbe fatto da spalla. In seguito, Karch avrebbe sistemato anche questo piccolo aiuto con una bustarella, o con una pallottola se fosse il caso. Ma Thelma Kibble non abboccò.
«Anche se qualcuno può garantire per lei, questo non spiega ancora perché è arrivato al punto di entrare con effrazione nella casa di un sospetto» disse l'agente.
«Non c'è stata effrazione» disse Karch indignato. «La porta d'ingresso era spalancata. Senta, quella ferma là fuori sul vialetto è la mia auto. Le sembra che avrei parcheggiato là se avessi voluto entrare illegalmente?»
«Lei sembra avere una risposta per tutto, signor Karch.»
«È facile rispondere se si dice la verità... Per favore, potrebbe smetterla di puntarmi addosso quella pistola? Credo di averle dimostrato a sufficienza chi sono e cosa ci faccio qui. Adesso vuole vedere la mia licenza?»
Thelma esitò ma poi abbassò la pistola lungo il fianco. Karch abbassò le mani senza che lei protestasse. Sperò inutilmente che lei mettesse via la pistola, ma rimase ugualmente soddisfatto da come stava evolvendo la situazione. Decise di assumere un atteggiamento spavaldo.
«Ora, posso chiederle anch'io cosa ci fa lei qui?»
Thelma alzò le grosse spalle.
«Sto facendo il mio lavoro, signor Karch. Una normale visita di routine. Per controllare uno dei miei casi.»
«Come coincidenza mi sembra un po' bizzarra.»
«Un paio di settimane fa ho avuto con Cassie una conversazione che non mi ha convinta. Così l'ho messa sulla lista dei controlli. Fino a oggi però non avevo trovato il tempo di occuparmene.»
«Ed è venuta qui invece di passare all'autosalone?»
«Ho telefonato. Al suo numero c'era un messaggio in segreteria, nel quale Cassie diceva che oggi non sarebbe stata al lavoro. Così sono venuta qui. E adesso non mi faccia altre domande, signor Karch. Sono io che devo farle a lei.»
«Va bene.»
Lui aprì le mani in un gesto di accettazione.
«Ha detto che c'è di mezzo un omicidio? Be', probabilmente io conosco Cassie Black meglio di chiunque altro da queste parti, e posso dirle subito che non può essere coinvolta in un omicidio. Lo escludo nel modo più assoluto.»
Karch ripensò al corpo di Hidalgo steso sul letto nell'attico del Cleo.
«Non sono d'accordo, agente Kibble. Gli indizi parlano da soli. E non dimentichi che si tratta di una ex detenuta, una persona che in Nevada ha scontato una pena per omicidio.»
«Era concorso in omicidio colposo. Conosco bene la faccenda. La legge l'ha ritenuta responsabile della morte del suo socio, anche se lei si trovava venti piani più sotto quando è precipitato da lassù. Qualcuno può anche averlo buttato giù, ma non è stata certo lei!»
«È questo che le ha detto? Che il suo socio era stato buttato di sotto?»
«È la conclusione cui lei è arrivata. Forse i casino volevano dare un esempio. Così qualcuno l'ha buttato giù.»
«Questa è una stronzata, ma lasciamo perdere. Come è riuscita ad arrivare qui dal Nevada?»
«Ha ottenuto un trasferimento. Con la garanzia di un lavoro all'autosalone di Ray Morales è stato facile. Un avvocato ha inoltrato la sua richiesta e il trasferimento è stato approvato. Conosceva Ray dai tempi di Las Vegas, quando lavorava nei casino. Anche Ray è un ex detenuto, che però si è rifatto una vita niente male rigando dritto. Voleva dare anche a Cassie un'opportunità. Probabilmente voleva anche qualcos'altro, anche se lei non me ne ha mai parlato.»
Karch aveva già avuto il sospetto che Morales fosse un ex detenuto.
Quando l'aveva fatto stendere sul pavimento dell'ufficio finanziario, Morales aveva infatti reagito con una certa calma, una calma che non si notava mai nei cittadini incensurati. La donna invece era come tutti gli altri: si era messa a piagnucolare, a implorare, e poi quasi a urlare. Per questo le aveva sparato per prima.
«Quindi lei la conosce bene?» chiese Karch. «Abbastanza da sapere che cosa l'aveva spinta...»
«Si riferisce al perché ha cominciato a derubare i giocatori di Las Vegas?»
Karch annuì.
«Secondo me c'entra il padre, un giocatore incallito da quattro soldi. Penso che lei cercasse di vendicarsi dei casino o qualcosa del genere. Non lo so.»
«È evidente. Le spiace se mi siedo? Ho la schiena malconcia.»
Sollevò le braccia dietro la schiena come per stiracchiare i muscoli, ma continuando a parlare.
«Ho una pensione della polizia municipale di Las Vegas. Invalidità parziale. Mi sono rovinato la schiena durante l'inseguimento a uno strafatto, che mi ha sollevato di peso e scaraventato giù da una rampa di scale...»
Non c'era una sola parola di verità nel racconto, ma il gioco di prestigio sembrava funzionare al meglio. Mentre parlava, Karch fece scivolare la mano sinistra sotto la giacca ed estrasse la 25 dalla tasca di seta cucita nel retro dei pantaloni.